di Nicola M. Spagnoli  

San Marco in Lamis – venerdì 27 marzo 2015 - Incominciamo dal disco o dalla copertina? Beh, nonostante la rubrica, in considerazione del fatto che la copertina venne concepita dopo, iniziamo dalla musica. C’e’ da fare una premessa importante, ovvero che i Beatles nei sette anni del loro dominio (la cosiddetta beatlesmania) furono soprattutto un fatto di costume, in musica non fecero poi niente di sconvolgente, certo furono bravissimi a far diventare certe novità di pubblico dominio, bravi a stare al passo coi tempi (anche se in leggero ritardo, a volte di pochi mesi, rispetto ai veri innovatori del rock), bravi a tradurre tutto quello che gli altri creavano nelle cantine amalgamando e condendo i prodotti con caramelle e canditi e quindi tranquillizzando sia i giovani (specie le girls)...

 facendo credere che nel mondo non c’era altro se non la bella musica e le loro non sconvolgenti poesie e specialmente riuscirono nell’intento, importantissimo, di tranquillizzare i loro genitori, preoccupati per le vere rivoluzioni, per la vera psichedelia, per il vero R. & R. Non ci volle molto genio anche perché, supportati da un bravo e furbo manager e da un produttore intelligente, riuscirono a preparare ad hoc ottime zuppette e intruglietti ed a spacciarli, per l’unico pasto possibile, ma per chi? Per teens che non conoscevano altro (o avevano paura dell’altro!), che gustavano solo il pre-confezionato, che ignoravano (o volevano ignorare), tutto quello che c’era in giro nel mondo reale, non solo in campo musicale, ovviamente. Quindi in sostanza furono, per usare una frase storica in altri campi, un vero e proprio oppio dei Popoli del ‘900, tanto da imbambolare, con le loro canzoncine, senz’altro gradevoli e orecchiabili, più di una generazione, perfino nei decenni successivi, perfino la Giunta capitolina di sinistra (sic!) in tempi relativamente recenti, in quel colossale revival celebrativo del 2003 che non poteva che farsi….al Colosseo.

Temiamo che il mito sopravviverà almeno finchè sarà in giro la generazione che da costoro fu imbambolata, ma anche addestrata bene, aggiungiamo, a diventare qualcuno e a fare miliardi: come loro. Il “Club dei cuori solitari del Sergente Pepe”, celebrato come il capolavoro, il disco del secolo, miglior album di tutti i tempi per la rivista Rolling Stone, come, per rimanere ai Beatles, una ulteriore evoluzione di Rubber Soul e di Revolver, la summa del rock, della psichedelica, dell’avanguardia, la culla del progressive, non contiene altro che canzonette, nemmeno tutte sopportabili, certo orecchiabili, ma non tutte belle e resistenti nel tempo, certamente con gli umori suggeriti da Pet Sound (Brian Wilson fu sempre un mito irraggiungibile per Paul e del resto l’album fu concepito proprio come la risposta inglese ai Beach Boys). Certo è che l’album attinge a piene mani ad esperienza altrui più incisive e qualificate come alla psichedelia dei Byrds (già saccheggiati in precedenza nelle idee), a quella di Younger Than Yesterday, di non molti mesi prima, addrittura pare che rifacciano dei brani, non proprio che copino, ma l’ispirazione è rilevabilissima come nella title track, sentitela subito dopo So you want to be a rock & roll star di McGuinn e ve ne accorgerete o sentite Why di Crosby e di seguito il brano indianeggiante di Harrison, che pure rimane il miglior brano dell’album.

Certo che dopo 700 ore di registrazione (tante ce ne vollero!) fossero stati dei grandi geni…altro che Good Vibrations sarebbe dovuta uscire! Non parliamo poi dell’escamotage meccartiano di fare un album-concept, anche quello non certo una novita’…ma quale fu la trovata? Unire un brano con l’altro senza stacchi, con un risultato peraltro fastidioso in un disco di pezzi diversissimi e scollegati del tutto fra di loro, nei testi e nella musica. Qualche arrangiamento pomposo alla George Martin, il quinto del gruppo ed effettivamente colui che ne determinò in sostanza il sound, trombette qua e là, ma da banda paesana, sviolinate pseudo sperimentali con strumentazioni spacciate per nuove ma già abbondantemente sentite e con ben altri risultati negli Yarbirds, nei Kinks, per non parlare dei Pink Floyd prima maniera. Rumorini introduttivi, stacchetti da music-hall, code finali per allungare ma che non hanno nulla a che vedere con i brani-fiume di Dylan di Blonde on Blonde o della rolligstoniana Goin’ home su After-Math, gia’ nel ‘66 di oltre 11 minuti. Qui invece motivetti facili facili, ovvi, quasi infantili, a volte goliardici e camerateschi della durata media di tre minuti che ricalcano, del resto, quello che troviamo nel minestrone kitsch presente sulla celebre copertina (foto 1).

Merito del loro antiquario la copertina, pare, che presentò a John e Paul il pittore naif Peter Blake, allora sconosciutissimo che, nonostante il magro cachet e per giunta senza diritti d’autore, da allora in poi visse di rendita per la fama acquisita e per i lavori che gli furono commissionati successivamente. Altra trovata spacciata per rivoluzionaria per una copertina, quella dei testi stampati sul retro dove campeggia anche la foto dei Fabulous Four in divisa di raso sgargiante e differente in forma e colore l’una dall’altra ma con, hai noi! Paul girato di spalle: e da lì giù congetture e articoli e libri e trasmissioni, da quattro decenni abbondanti e nauseanti, sulla sua morte e immediata sostituzione con sosia o con avatar!

I Beatles precursori in un certo senso lo furono, ma non di tutto come si vuol far credere, del gossip di sicuro! Nelle mani di Blake abbandonarono quindi l’idea di Brian Epstein (che morì prima dell’uscita dell’album) di continuare con qualcosa di simile all’elegante collage in b/n di Klaus Voormann per Revolver e accettarono il progetto di essere contornati da tutti i personaggi, cartonati ed in grandezza naturale, che i quattro avessero proposto con l’esclusione, per motivi di opportunità e quieto vivere, di tre dei nomi proposti da Lennon come Gesù, Hitler e Gandhi. Ci infilarono pure le loro statue di cera, già collocate nel museo di Madame Tussauds, un nome enorme, floreale e in stile old-festival-di-sanremo, bambolotti vari, palmizi e grancassa questa però dipinta e che diede fama anche a Jann Haworth, l’ideatrice. Insomma tutti ci guadagnarono, persino il fotografo, Michael Cooper, nel cui studio si lavorò per due settimane e infine per tre ore di set fotografico. Il celeste puro del cielo unito ai gialli, ai rossi e verdi accesi, in una doppia copertina che aperta faceva vedere all’interno i nostri in divisa, giganteschi, accoccolati e su sfondo giallo, con in più nella fodera del vinile un cartone con pupazzetto del sergente da ritagliare e assemblare fecero certo un effettaccio sulle anime candide tanto da fargli raggiungere un primato, quello di secondo disco più venduto di tutti i tempi, con oltre trenta milioni di copie, secondo solo al jacksoniano, e certamente più meritevole, Thriller, che pare sia arrivato a quaranta.

Se vogliamo parlare di stile per la copertina potremmo azzardare a chiamarlo pseudo-pop, viste le opere d’arte a cui si rifà come quelle di Richard Hamilton, inglese, che fin dal ’56 faceva collage, un pop lontano comunque da Warhol che proprio quell’anno aveva creato la famosa banana per i Velvet Underground. Non è che Blake facesse schifo, difatti un suo autoritratto, naif e premonitore del ’61 fu esposto anche alla Tate Gallery, come i Beatles con i Beach Boys, così lui con in mano una foto dell’americano Elvis, con medaglie e coccarde varie sul petto, quasi una divisa alla Pepper, più tardi raggiunse una certa fama e comunque uno standard elevato e dignitoso in molte opere. Fece altre copertine, belle quelle quasi passate in cavalleria come Face Dances per the Who o Stanley Road per Paul Weller. Popolari altre di stile retrò che ricordano perfino i calendarietti dei barbieri o plateali rifacimenti alla Rauschenberg per gli Oasis a volte realizzate con una semplice e banale foto, per Ian Dury, con veloce e incisivo schizzo per Eric Clapton con elaborato logo per i Pentangle fino a copiare se stesso per quello della squadra del Liverpool. E qui ci va benissimo citare il d’apres che dicevamo, certo non inconscio, Beatles- Byrds: lo vediamo visivamente rappresentato vedendo il quadro On the balcony di Blake e Le balcon di Edouard Manet insomma il binomio Beatles-Blake ovvero: chi si assomiglia… si piglia.

Di Blake ci resteranno comunque nella memoria soprattutto il poster per Bo Diddley quelli dei giorni della settimana e le cartoline nostalgiche sulle lettere dell’alfabeto. Per concludere, come non citare uno dei capolavori-sfottò di Frank Zappa più riusciti? Realizzato a tamburo battente e uscito nell’anno successivo si rivelò geniale con il suo sarcasmo, irriverente e provocatorio,nella grafica davanti e anche sul retro, nel titolo e nei testi ma con una musica di ben altra levatura. E quello dei Rutles? Si formarono nel’75 da rimasugli della Donzo Dog Doo Dah Band, già fonte di ispirazione anche per i Beatles, vedi Gorilla proprio del ‘67, con lo scopo di sfottere i nostri baronetti e nel 1978 uscirono con un album di canzoni pseudo-beatlessiane a dimostrazione di quanto fosse facile fare cose simili e con una copertina che contiene le foto di quattro album rifatte con le loro immagini, fra cui quella di cui parliamo Non vale la pena di soffermarsi sull’infelice film/musical e doppio LP (del ’78, un omaggio all’Album omonimo da parte dell’ormai dimenticato Peter Frampton, dei Bee Gees e altri, recuperato addirittura nelle “manifestazioni” romane per il quarantennale, mentre sono più apprezzabili le numerose parodie al disco e ad alcuni brani fra cui quella, del ’98, dei sempiterni Simpson, fatta questa per il loro ventennale, con ospiti famosi.

                                                                                                                                                                                                                           Nicola Maria Spagnoli