Nicola Maria Spagnoli

Roma, domenica 16 aprile 2017 -  Un disco che avevo recensito su una celebre rivista mensile rock, tanti anni fa, forse appena uscito e che a distanza di  così tanto tempo ho risentito e quindi sentito il bisogno di riaccendere su di esso un po’ di attenzione essendo non un semplice disco ma un capolavoro una vera “pietra  miliare” come dice qualche sito specializzato, che va oltre il tempo e oltre le mode e le tendenze. Bisogna dire che se la Word Music non è nata con questo disco di Peter Gabriel, certamente ha avuto un grosso contributo proprio dalla colonna sonora di The Last Temptation of Christ di Martin Scorzese ovvero da questo lavoro che in doppio vinile si intitolava Passion.

 Un filone che fu approfondito dall’ex Genesis con la sua etichetta Real Word di fatto inaugurata da questo disco e dalla serie Womad con cui ha fatto conoscere al mondo del rock voci immortali come quelle di Nusrat Fateh  Ali Khan, cantate carismatico pakistano o Youssou N’Dour, voce del Senegal e dell’Africa intera (e che oggi è ministro della Cultura del suo Paese). Come disco, fra l’altro  col senno di poi e a distanza di oltre un quarto di secolo dall’esordio possiamo affermare che è senz’altro il lavoro più bello, profondo e ambizioso di Gabriel, non che tre o quattro dischi con i Genesis (Trespass/Nursery Crimy/ Foxtrot/Selling Englad by The Pound/The Lamb Lies down on Brodway ad esempio) e anche i primi quattro anonimi da solista non lo fossero ma qui si travalica l’esperienza rockettara o progressive, il lavoro va oltre, c’è l’elettronica, c’è  il ritmo tribale che aveva caratterizzato alcuni brani di III e IV (i primi dischi post Genesis, dal 1977, non avevano titolo!) di Gabriel ma in più c’è  l’omogeneità e il perfetto amalgama degli stili, insomma in sostanza la musica del mondo con risultati che difficilmente hanno avuto uguali, anche in seguito, sia con lui che con altri pionieri del suono.

Certo alcune melodie sono inevitabilmente rielaborazioni di temi tradizionali e proprio musicisti tradizionali vengono cooptati per un risultato a dir poco epocale. Naturalmente ci sono anche nomi noti del jazz e del rock come Billy Cobham che comunque qui non adotta certamente le rullate di Spectrum, o Shankar (non Ravi ma Lakshminarayana), il cantante/violinista che già avevamo apprezzato con John Mc Laughlin. Di altri maestri noti c’è  David Rhodes con la sua chitarra ed il, grandissimo, trombettista  John Hassell che come stile non ha nulla a che vedere con Davis, ancora  qualche altro musicista occidentale ma per  il resto tutti artisti, e cori, tradizionali, del tutto sconosciuti in occidente, turchi, pakistani, indiani e persino della nuova Guinea. Lui tira le fila, imbraccia per lo più strumenti elettronici da sottofondo, affatto invadenti e a volte non ci risparmia i suoi vocalizzi come nel brano omonimo dove peraltro sentiamo anche quelli, accapponanti bisogna dire, dei due grandissimi cantanti sopra citati Nusrat e Youssou. 

I brani si susseguono solenni e variegati, qualcuno potrebbe ricordare persino musicisti classici contemporanei come Khachaturian o evocare temi di un Morricone  come in With this love che nella parte finale,corale, sfocia fra le braccia di Handel e Bach. Altri pezzi non sono poi nemmeno tanto distanti dalla psichedelia dei Pink Floyd di Ummagumma (Wall of Breath o Lazarus raised) anche se un pò dappertutto sono le percussioni, ghanesi, armene o egiziane che siano, a farla da padrone (Of  These Hope e reprise, e poi  Disturbed). Non possiamo non constatare anche che ci siano influenze di Philip Glass e di Brian Eno e il quadro è completo, musicalmente, per farne un capolavoro assoluto.

Per quanto riguarda l’artwork, la parte grafica, da dire innanzitutto che questo quadro usato per la copertina (fig. 1) è realizzato dall’artista Julian Grater con elementi naturali, ramoscelli, arbusti, terre, foglie e petali (fig. 2) e forse bitume, a definire un profilo umano, una maschera tragica di grande drammaticità quasi un volto tumefatto del Cristo mentre sul retro ci sembra di vedere un purpureo tessuto orientale di foggia astratta. Di questo artista, Grater, non ci risultano altre copertine se non una per Michael Finnissy, pianista e compositore classico inglese (fig. 3) ma in compenso nelle sue molte mostre si è sempre più allontanato dalla figura, seppur sfigurata, umana,  che partiva  da quelle mostruose di  Francis Bacon e dai collages di Raushenberg  ma che non disdegnava nemmeno quelle del nostro Giacometti per avvicinarsi sempre più alle combustioni di un Burri  e per arrivare alla fine a somigliare ai famosi Ostages di Fautrier o anche ai Pupazzi di Dubuffet.

Certo sarebbe stato facile per Gabriel rivolgersi, come per altri suoi lavori agli studi di grafica  ed agli artisti più  amati della storia del rock  allora imperanti come Storm Thorgerson o Roger Dean ma evidentemente, da colto e variegato personaggio qual era, ha voluto puntare su uno sconosciuto ai più, a  Grater appunto, a quelle sue figure degradate e non facilmente riconoscibili, figure che pongono al centro soltanto un  valore, quello che gli si attribuisce. Un corpo quindi ci sembra di intravedere, anzi un torso, forse mutilato ma certamente inquietante e al contempo commovente, quasi una reliquia, una reliquia religiosa, mistica ed indistinguibile che non ha nulla di trascendentale, di tradizionale, iconografica, ma al contrario una figura saldamente legata al mondo che ci portya a pensare ad un ideale ritorno alla natura, alla madre terra.

Per concludere potremmo dire in conclusione che un citazionismo attraversa quest’opera,  sia dal punto di vista grafico che nel contenuto, nella musica, un citazionismo di certo non prolisso o lezioso ma magistralmente riuscito, dal forte impatto emotivo.      

 

                                                                Nicola Maria Spagnoli

 

 

Fig 1

 

 

 

Fig 2

 

 

Fig 3