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Mario Ciro Ciavarella

San Marco in Lamis, venerdì 28 luglio 2017 -  Non si riusciva facilmente a spingere e far rotolare un pallone che era stato creato da mani piccole ma forti. Le cuciture tenevano insieme esagoni imperfetti, che davano un senso di molta precarietà a quella forma che ricordava a volte un’anguria. Eppure era un pallone da calcio. Il grasso che cercava di dare un tono e una forma stabile al tutto, colava, e veniva tolto involontariamente dalle mani dei giovani calciatori, ogni volta che lo prendevano in mano per una rimessa laterale.

 Le traiettorie erano improvvisate: non c’era verso di dare una direzione retta, ogni volta che un calcio veniva dato al pallone di una volta. I palloni  attiravano intere generazioni, come se fossero Terre Promesse da raggiungere a tutti i costi.

 Il cuoio del pallone di una volta aveva la fisionomia di un pugile, che ne aveva presi tanti, di pugni. Sembrava che i palloni di una volta ti guardassero con sguardi di sfida: volevano vedere se erano più duri i tuoi piedi, oppure la loro sostanza. Una sostanza con la quale i sogni di tanti,  cercavano di avverarsi. Sembrava di vedere in quelle sfere di cuoio facce di gente conosciuta: amica o nemica.

 Se si giocava in difesa in quel momento, le smorfie fatte dal pallone erano quelle dei visi di gente a noi vicina. Ma se si giocava all’attacco, la fisionomia del pallone assumeva la faccia di una persona brutta e poco raccomandabile: i calci dati in questo caso, erano calci eseguiti con tutta la forza che c’era nel nostro corpo. 

 Colpire di testa quei palloni nemmeno a pensarlo. Si aspettava che venissero presi con le mani dal portiere oppure che toccassero il terreno di gioco per poi colpirli e indirizzarli verso la porta avversaria o passarli ai compagni di squadra.

 Forse c’era il trucco: all’interno del pallone c’era una calamita. Come poteva un semplice pallone di cuoio duro attirare ventidue ragazzi verso di sé? C’era un magnete che aveva anche il dono della parola: un ventriloquo. Dall’interna della camera d’aria di quella sfera, c’era qualcuno che suggeriva che in quel momento lo si poteva colpire.

 Parole sussurrate da quell’oggetto che tutti riuscivano a sentire: anche gli spettatori dalle gradinate. Riuscivano ad ascoltare la voce che usciva da quella sfera.

 Infatti i tifosi suggeriscono sempre ai calciatori come giocare in campo.

 Il pallone di una volta era sempre in movimento. E difficilmente aveva dei colleghi che lo sostituissero quando usciva fuori dal campo: si aspettava che venisse recuperato anche nei canaloni, per poi continuare a colpirlo e spingerlo verso l’altra metà campo.

 Comunque, il pallone aveva un alleato: il campo di calcio. Sempre quello di una volta. Nella parte inferiore del manto del campo, c’erano delle piccolissime ed insidiose pietre che non risparmiavano nessuno: ogni caduta era una caduta da Via Crucis, i segni rimanevano per le successive venti partite da disputare.

 La parte superiore del campo di una volta era costituito da una polvere di difficile definizione. Era uno strato talmente sottile che forse in natura non esiste. Ma si trovava solo sui campi da calcio di una volta.

 Quella polvere faceva da attrito. Il pallone era come se chiedesse al terreno di gioco che lo trattenesse il più possibile, per farlo riposare. I  palloni di una volta avevano un’anima, non solo un corpo, che chiedeva di riposare.

 Il pallone e la polvere di un campo da calcio di una volta, sembrava che si accarezzassero: più il pallone rotolava, e più a lungo durava la carezza che il terreno di gioco donava al pallone.

  Film recommended: “Fuga per la vittoria” (1981) di John Huston

 

Mario Ciro Ciavarella