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Giuseppe Delle Vergini

San Marco in Lamis, giovedì 9 febbraio 2019 - Ecco la 5° puntata  di un racconto lungo - o romanzo breve -  scritto da Giuseppe Delle Vergini anni fa. Lo stesso racconto è stato ispirato da un fatto di cronaca nell'infinita tensione che esiste tra israeliani e palestinesi e ha sullo sfondo la Shoah. E' la ricerca di un dialogo che vede la differenza di età dei protagonisti, la loro sofferenza e la passione per il bello e il buono, come può essere la musica, come elementi positivi per costruire la pace.

 

IX

Le automobili correvano in strada indifferenti ai passanti fermi sul bordo del marciapiede in attesa del semaforo verde. La giornata calda e il cielo luminoso e sgombro di nubi rallegravano quella primavera a lungo desiderata. L’inverno se ne era appena andato via insieme ai suoi giorni insanguinati dagli attentati e la gente con la bella stagione sperava in un periodo migliore. In tutti i sensi. Ilda per tornare a casa doveva attraversare il grande viale e prendere l’autobus sul lato opposto. Il rumore del traffico copriva ogni cosa. Finalmente scattò il verde e lei attraversò la strada con gli altri pedoni. Alla fermata dell’autobus soldati armati sorvegliavano. A Ilda quella presenza trasmetteva sicurezza e agitazione allo stesso tempo. Le divise, in verità, non le piacevano molto. Non potevano piacerle dopo tutto quello che le era accaduto. Nel lager ne aveva viste troppe e troppa gente morire per un niente a causa di chi, quelle divise, le indossava. Aveva dovuto lucidare stivali e mostrine e tremare ogni volta che appariva un soldato in uniforme. No, le divise proprio non le andavano giù, pur se quei soldati erano figli di Israele che rischiavano la vita per proteggere la sua e quella degli altri cittadini. Anche alla fermata di un autobus. I militari erano tre ragazzi. Uno di loro portava gli occhiali. Il viso più adatto ai libri che alle armi. Fecero dei controlli a caso e chiesero i documenti ad alcuni dei presenti e probabili passeggeri di autobus. Ilda non fu tra questi. Quando arrivò il suo mezzo fu ben lieta di salirci sopra e di allontanarsi da quei fucili spianati. Le armi non potevano portare a niente di buono. Eppure salire a bordo non era più rassicurante che restare a terra. L’autobus da un momento all’altro poteva trasformarsi in una palla di fuoco. Bastava uno zainetto pieno di tritolo. Una persona determinata con addosso una cintura esplosiva. E la morte arrivava, indifferente alle vite di tutti. Osservare con attenzione o perfino con sospetto i passeggeri era ormai diventata la cosa più naturale quando si prendeva un mezzo pubblico. Il  vicino poteva trasformarsi nel tuo angelo della morte, perciò d’istinto guardavi bene chi avevi accanto. Ilda non sfuggiva a questa regola. Gli anni della prigionia riemergevano anche nella prudenza usata nell’osservare tutto, senza farsi notare né dare nell’occhio. Più volte nel lager aveva evitato situazioni di estremo pericolo, salvandosi grazie al fatto di essere stata sempre vigile su quanto le accadeva attorno. Aveva imparato ad osservare gli atteggiamenti, ad ascoltare il tono delle voci dei soldati e dei loro collaboratori pur se non comprendeva il tedesco. Era come se avesse appreso a leggerne i pensieri, specie quelli terribili e cattivi, che in un attimo potevano scatenare ira e rabbia sui malcapitati di turno. Erano tempeste che annullavano quel poco di umano ancora rimasto nei carcerieri e che uccidevano la speranza negli internati. Semmai un frammento di quest’ultima  sopravviveva ancora in qualcuno. Sull’autobus i passeggeri se ne stavano silenziosi e sospetti. Ognuno dubitava dell’altro. Ilda sapeva che ad ogni fermata il pericolo aumentava. Lei in ogni caso, data la sua età, non avrebbe potuto fare molto. Decise quindi di viaggiare il più tranquillamente possibile. I suoi occhi però continuarono a guardarsi attorno e a scrutare chi saliva e chi scendeva dal mezzo. Ad un certo punto l’autobus cambiò percorso. C’erano dei lavori di rifacimento dell’asfalto e di conseguenza il tragitto aveva subito una modifica. L’autobus rallentò e poi quasi si fermò a causa dei lavori e del traffico che l’avevano costretto a imbottigliarsi su una sola carreggiata. Ilda guardava fuori dal finestrino. La giornata era davvero bella. Sarebbe perciò scesa un paio di fermate prima della sua per fare due passi e così arrivare in una piazza e prendere un altro mezzo per tornare a casa. L’autobus stentava a riprendere velocità e i clacson degli automobilisti gracidavano impotenti la loro voce di protesta, frastornando i pedoni che malvolentieri attraversavano la strada a zig zag tra le auto ferme. Guardando sempre dal finestrino, non conosceva bene quella zona dove l’autobus era stato deviato, Ilda si accorse che c’erano altri lavori in corso oltre a quelli stradali. Riconobbe però il luogo per averlo visto più volte in tv e nelle foto sui giornali. Era uno dei cantieri per la costruzione del muro che il governo aveva fortemente voluto a protezione dalle infiltrazioni di terroristi e attentatori dai territori palestinesi. Lo osservò con attenzione perché il mezzo procedeva a rilento. Era un lavoro imponente e le sembrò da subito un mostro di cemento sorto con violenza a tagliare in due l’aria e la città per ferirla inesorabilmente.

- Ci siamo ridotti a imitare Berlino nel suo peggior passato… - pensò.

Un gruppo di soldati in tenuta antisommossa e due autoblindo erano schierati a protezione del cantiere perché era in corso una manifestazione di protesta per la costruzione del muro. Poche persone in verità, quasi tutte israeliane, inneggiavano contro il governo con scritte e cartelli affinché fermasse immediatamente quell’opera di divisione. Uno striscione diceva: “Non vogliamo altri muri sui quali piangere: ne abbiamo già uno!” L’autobus attraversò con esasperatamente lentezza quel tratto di strada. Ilda ebbe tutto il tempo di osservare i visi dei manifestanti, poi quello dei soldati e infine dei passanti. Anche le altre persone sull’autobus si voltarono a guardare la manifestazione. Qualcuno borbottò senza che Ilda riuscisse a capirne il senso. Il rumore dell’autobus che accelerava, riprendendo finalmente la sua corsa, coprì ogni voce. Ilda gettò un ultimo sguardo a quel grigio muro di cemento. Che sembrava soprattutto imprigionare loro che vi restavano dentro.

 

X

Un nuovo attentato aveva portato sconvolgimento nella città. Un uomo si era fatto saltare in aria dopo essere entrato in un bar frequentato da studenti e da turisti stranieri. Le prime notizie parlavano di decine di vittime mentre le immagini diffondevano le ormai consuete scene di morte e distruzione. Il copione era lo stesso. Nessun attacco diretto o a viso aperto. Gente tranquilla che passeggia nella via principale del quartiere, ragazzi seduti a chiacchierare ai tavolini dei locali sorseggiando una birra, negozi ancora aperti, impiegati in uscita dagli uffici e all’improvviso una deflagrazione. Panico, sangue, ululati di sirene e lampi di ambulanze. Terrore generale. Arrivano i soccorsi, arriva la stampa, arrivano le telecamere. E arrivano i parenti delle vittime a confondere il loro pianto con quello dei sopravvissuti. Comincia la dolorosa conta dei morti. E comincia l’angoscia per la risposta dell’esercito. La rabbia si mescola alla paura. Ilda si accasciò in poltrona. Pigiò il bottone rosso del telecomando e spense il televisore. Non aveva più pensieri. Era scoraggiata. Ma dove si voleva arrivare? Ad una nuova inutile guerra? E per fare cosa? Era confusa, smarrita. Perché tanta violenza?

“La storia si ripete. Per quanto tempo ancora?” pensò fra sé. La pace dopo ogni attentato, dopo ogni ritorsione, diventava più lontana. Da quando aveva conosciuto Omar ogni volta che il confronto tra israeliani e arabi si trasformava in tragedia pensava agli altri, a quelli che fra poco tempo si sarebbero ritrovati al di là del muro. Sapeva che in Israele la loro vita non era facile. Ilda seguiva sempre la televisione italiana che sulla questione di Israele aveva un taglio ben diverso da quello di Tel Aviv. Non era facile vedersi paragonati ai nazisti da gente che nemmeno sapeva cos’era stato il nazionalsocialismo. Perché allora era stata pianificato l'annientamento di un popolo. Ma capiva che la situazione stava degenerando. Le immagini di quel bambino ucciso mentre cercava di proteggersi dalle raffiche di mitra dei soldati israeliani le tornavano spesso alla mente. “Noi non possiamo essere come loro – pensava - come chi getta dalla finestra un uomo dopo averlo linciato! Noi non dobbiamo essere come loro, come chi brucia in piazza bandiere e fantocci! Anche gli altri iniziarono così! Poi seguirono le persecuzioni, le deportazioni, i campi di concentramento. Noi non possiamo trasformarci in aguzzini…”

Ma farsi saltare in aria tra innocenti che tornavano dal lavoro o sorseggiavano un caffè, quella non era lotta politica. Era terrorismo e basta. Di questo Ilda  era convinta. Il Medio Oriente era una polveriera. Ciclicamente scoppiavano guerre, i vicini volevano la distruzione di Israele e lo Stato doveva spendere tanti di quei soldi in armi e armamenti che avrebbe fatto meglio a investire in ben altre cose. Ebrei di tutto il mondo, lei compresa, si erano trasferiti in Israele perché desideravano la pace, non volevano più avere il timore di essere costretti a fuggire o rischiare di finire dissolti in una ciminiera, solo perché ebrei. Chi era sopravvissuto all’Olocausto non poteva permettere che la storia si ripetesse. Questo doveva essere il senso dello Stato di Israele. Eppure le cose sembrava si stessero rovesciando. Ilda sapeva che la vita di Omar e della sua gente avveniva in condizioni disumane, assurde, tanto più perché si svolgeva sotto lo stesso cielo.

- E dove ci sono ingiustizie e differenze così grandi, la pace non arriverà mai! - ripeteva sempre Ilda a se stessa e agli amici che ribattevano:

- Ma non ci sarà mai pace finché ci saranno in giro terroristi! Perciò dobbiamo neutralizzarli!

Sembrava una questione irrisolvibile. Sperava in cuor suo che quel ragazzo non si cacciasse in qualche guaio e che la musica gli desse un’opportunità per una vita più dignitosa.

“L’unica cosa che posso fare – diceva a sé stessa – è aiutarlo ad amare sempre di più la musica con le mie lezioni”.

Ilda cominciò a pensare di contattare l’orchestra composta da giovani israeliani e palestinesi. Aveva seguito con interesse la sua nascita e anche le difficoltà incontrate per poter suonare in patria e all’estero. Voleva essere un segno di pace, un ponte gettato tra due mondi separati per unirli con il linguaggio universale della musica.

“Devo seguire quel ragazzo, nutrirlo meglio e procurargli un’audizione in qualche orchestra. Magari proprio in quella là”.

La musica poteva essere lo strumento per realizzare  sogni impossibili. Si alzò dalla poltrona e sedutasi al pianoforte fece scivolare le sue mani sulla tastiera dando vita ad un notturno di Chopin.

   Continua

 

Link delle Puntate Precedenti:

1° Puntata (Il Muro) Pubblicata Sabato 26 Gennaio 2019

2° Puntata (Il Muro) Pubblicata Giovedì 31 Gennaio 2019

3° Puntata (Il Muro) Pubblicata Sabato 2 Febbraio 2019

4° Puntata (Il Muro) Pubblicata Giovedì 7 Febbraio 2019