Mario Ciro Ciavarella

San Marco in Lamis, giovedì 16 maggio 2019Si faceva girare la ruota per vedere se girasse. Un esercizio che sembrava inutile, ma non lo era. Mettendo la bicicletta al contrario: tenendola appoggiata con il sellino sul terreno e le ruote in alto. Si dava un colpo alla ruota e con l’altra mano si teneva la bicicletta in equilibrio. Poi si bloccava la ruota, che dava segni di vita, e si facevano girare i pedali sempre con le mani.

La catena dava un senso di continuità dalle ruote ai pedali. La catena. Forse era l’elemento più importante dell’’intero mezzo: doveva essere forte e ben lubrificata. Pochi cigolii e non doveva mai uscire fuori dal suo “circuito”: ruota posteriore e pedali. Era come un genitore che teneva a bada la prole, sempre vicino e guardingo, per seguire la direttrice pedali-ruota.

 Le ruote, poi, non le si degnava forse nemmeno di uno sguardo: si sapeva che, piuttosto prima che poi, si sarebbero bucate. Bisognava solo attendere. Le camere d’aria di riserva si tenevano sul corpo: appoggiate sulle spalle di traverso, come fasce del sindaco. Due camere d’aria: tutte e due le ruote si sarebbero bucate. Bisognava solo aspettare nel sentire un tonfo e la bicicletta abbassarsi, di poco.

 Ognuno si portava il suo velocipede (scusatemi il termine ottocentesco…), non c’erano squadre. Ma solo il proprio orgoglio e la propria forza. Strategie: zero. Gregari: inesistenti. E si pregavano le divinità del sole e della pioggia, per farsi accompagnare nel modo più facile e comodo possibile. Non c’era nessuna previsione del tempo. Si partiva e si arrivava. Chi arrivava.

 Le foto che ritraevano i ciclisti somigliavano a quelle delle corride: di quando i toreri vengono immortalati prima di scendere nell’arena. Nessuno sorrideva. Né i toreri e nemmeno i ciclisti. Sembravano foto che riprendevano attimi di congedi a tempo illimitati: come se quelle corse su strade sterrate non avessero mai fine. Come militi dello sport pronti per una battaglia, dove non si doveva uccidere nessuno, ma nemmeno farsi uccidere dal fango e dalle intemperie che spesso si presentavano sul terreno di corsa.

 Si parte. Polvere che cerca di non farsi far male dalle ruote, da biciclette che non hanno mai transitato su quelle strade. Strade. Chiamiamole così per intenderci. Per non farci male. Per avere l’illusione che si circolava  su  delle strade. Per avere l’idea di un percorso amico e per niente ostile. Ma che accompagnassero quei ciclisti fino alla meta. Chi ci arrivava.

 La povere si alzava, prima, quasi con riverenza, poi con decisione. Quasi si sentivano urla di protesta della polvere schiacciata da ruote spesse e dure. Quello che si sentiva come cigolio delle bici, non lo era: era polvere che reclamava più rispetto. Non sempre il terreno vuole essere calpestato senza motivo. Per gli umani c’è sempre un motivo. Per tutto il resto, no.

 Intanto le catene per ora reggono, forse perché la corsa è appena partita. Ci saranno ancora centinaia di chilometri da percorrere e polvere da sollevare. E occhi da chiudere per non farsi annebbiare la vista. E gente che tirerà sul viso di alcuni ciclisti secchi pieni di acqua!! Lo si faceva a fin di bene: tirare secchiate d’acqua ad atleti che arrivavano sudati e doloranti. L’acqua che veniva buttata sui visi dei ciclisti, forse era parente stretta di tutti i secchi (azzurri!!) di tutti i tornei cittadini di calcio del mondo: acqua santa!! Che toglieva tutti i mali del mondo.

 L’acqua che scendeva dal viso dei ciclisti, scivolava sul corpo e poi cadeva a terra. E la polvere ringraziava: anche per lei c’era sollievo. Ma poi arrivavano altri ciclisti, e quella polvere riprendeva a soffrire. Le catene intanto tenevano. Le catene, come se vivessero ad un piano superiore, rispetto alla polvere e al fango: non si preoccupavano poi così tanto. Pensavano: ci vorrà tempo prima che la polvere e il fango arrivino da noi, qui sopra. Tra la polvere e le catene delle biciclette c’era un patto di non belligeranza: doveva durare il più possibile.

 Ma poi, quando le pedalate erano tante, le catene iniziavano a stancarsi, e a tendere di cadere, e di lasciare al loro destino le due ruote. E la polvere quello aspettava: il momento di vendicarsi. Di prendersi su di essa tutta la catena, e sporcarla di tutto ciò che sul terreno “ci abita”.

 E così l’abbraccio avveniva. Prima o poi avveniva. Come quando uno squalo attende che il nuotatore si stanchi. In soccorso alla catena arrivava il ciclista. Scendeva dalla bicicletta e iniziava a rimettere tutto a posto. Non sempre ci riusciva. The end. Fine della corsa.

 Ma gli altri corridori correvano: loro biciclette tenevano ancora. Morta una catena, altre sopravvivono Quello che faceva vincere o perdere un ciclista, non era solo la sua forza e abilità, ma anche come la parte tecnica viveva quelle corse. E di come la polvere consumava le ruote, che cercavano un po’ di spazio davanti ad esse per poter sopravvivere. Anche le ruote avevano un’anima. E quando si sgonfiavano o si bucavano, morivano. Di resurrezioni nel ciclismo difficilmente ce ne sono.

 Quello che va in paradiso è solo uno: chi arriva primo…

 

Mario Ciro Ciavarella Aurelio