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Mario Ciro Ciavarella Aurelio

San Marco in Lamis, venerdì 14 giugno 2019 -Quando ricevemmo questo libro di Carlo Levi come testo di Narrativa alla Terza Media, mi ritrovai tra le mani un’opera letteraria della quale non sapevo l’esistenza. Sulla copertina c’era un quadro dello stesso scrittore (era anche un pittore), e poi tante pagine da leggere e capire. Il professore di Lettere, lo straordinario Sebastiano Rendina, ci spiegò che quel libro parlava di noi Meridionali.

Il Mezzogiorno d’Italia, quella vasta area del nostro Paese che occupa almeno metà Stato. Ed è lì che si svolge tutta la vicenda, tutta la storia del confino di Carlo Levi, antifascista torinese, mandato in esilio in Lucania (come si diceva una volta), e dove scoprì un mondo che forse non immaginava nemmeno lui che potesse esistere. Lucania o Basilicata. Terra di confine e confino.  

Povertà assoluta, così come il progresso era inesistente, e l’ignoranza la si poteva toccare con mano anche nelle pietre. I paesi descritti da Levi, erano quelli che c’erano in tutto il Sud, parliamo sempre di tanto tempo fa: anni ’30 del secolo scorso. Il Cristo (la civiltà) che Carlo Levi non trovò nel profondo Sud, dalle altre parti non è che fosse presente. Quasi cento anni fa la miseria era tangibile quasi dappertutto.

La povertà di noi Meridionali, all’epoca, era accentuata soprattutto dall’Unità d’Italia avvenuta settant’anni prima, che penalizzò non poco il Sud. E in mezzo c’era stata la Prima Guerra Mondiale che ha mortificato ancor di più la precaria condizione sociale ed economica del nostro Paese.

Leggendo questo testo di Narrativa, noi studenti di Terza Media, ci meravigliammo non poco, quando scoprimmo che alcuni riti (definiamoli antropologici) erano simili a quelli esistenti anche nelle nostre zone. Quando  Carlo Levi arrivò ad Agliano (o Gagliano), notò molta gente,  soprattutto donne, quasi tutta vestita di nero. Il nero, anche da noi decenni fa, veniva “preferito” soprattutto dalle nostre madri, quando c’era un lutto in famiglia; senza parlare delle nonne. Quelle “divise” nere non si toglievano più!  

Nero. Era nero quasi ovunque nei paesi della Basilicata. Neri i vestiti, gli addobbi messi all’ingresso delle case dove c’era stato un defunto chissà quanto tempo prima. Nere le case (dentro). Neri i visi. Neri gli animali. La sporcizia era nera. La tonaca del prete era nera, anche perché sporca.  Soprattutto questo colore, vide lo scrittore torinese. Ombre che si proiettavano sulle anime dei lucani: tra corpi e ombre non c’erano confini.

Bianca era la magia: c’era la perpetua di Carlo Levi (una vedova con un figlio), che preparava dei filtri d’amore. Il marito era stato a sua volta vittima di un’altra donna proprio per colpa di questi filtri. Si credeva anche in questo. Come da noi, nel nosto paese. In fondo si tratta sempre di profondo Sud: la superstizione che trasuda sangue nelle pagine di questo “Cristo”, è palpabile. E non solo quella, ma anche il Destino fa parte della vita dei Meridionali. Siamo anche noi figli del “ciclo dei vinti” di Verghiana memoria.

Un’impassibile rinuncia alla vita. D’altronde le risorse economiche che c’erano tanto tempo fa erano pochissime. A Gagliano e nei paesi limitrofi, i dottori lo erano solo sulla carta: l’ignoranza permeava fin dentro il midollo quei personaggi che si facevano chiamare “medico”. Carlo Levi, essendo anche lui un dottore, ma che non aveva mai esercitato, si rese  conto che in quelle terre nemmeno il “Cristo medico” era arrivato.  

Tante donne. In quei paesi Levi notò soprattutto la presenza di donne: gli uomini vivevano di meno, soprattutto per colpa delle guerre. E i bambini avevano una vita media di pochi anni. La Provvidenza, come Cristo, non si affacciò da quelle parti. Terre arse dal sole senza una minima ombra che potesse dare un po’ di refrigerio a carni sempre coperte da vesti lunghe e nere. Carlo Levi per trovare un po’ di refrigerio andava al cimitero: si sdraiava dentro una buca che serviva per calarci e depositarci una bara dentro, appena ci fosse stato un morto da quelle parti.

La terra della Lucania è aspra, poco generosa per i suoi abitanti. Cittadini che Levi li descrive tutti invidiosi, sospettosi, gelosi, cattivi e con tante altre “qualità senza dio”. Sono la sintesi di Caino, forse manca loro solo l’omicidio. Ma sono perdonabili: sono stai generati, e le loro vite lasciate al caso. In attesa che arrivi da quelle parti qualche novità. Come una  ferrovia sulla quale viaggino treni. Con dentro gente che possa portare in Lucania epifanie: novelle che annuncino che dio sta per arrivare anche lì. E quando arriverà forse nulla cambierà: l’umanità ha troppe latitudini dove vivere. E Cristo per toccarle tutte… ha i suoi tempi.

 

Mario Ciro Ciavarella Aurelio