Mario Ciro Ciavarella Aurelio

San Marco in Lamis, venerdì 26 febbraio 2021 - Una nuova rubrica “I Giorni e la Memoria” per non dimenticare. Prima che tutto venga seppellito in byte e tanto altro. Il tutto stipato in chiavette che verranno perse nel tempo. E computer che si romperanno e terranno dentro di loro le vite degli altri. Conviene fare delle copie cartacee di quello che scriviamo… LA SANTA MESSA DELLE 7,30. Si aspettava, spesso, che il sagrestano aprisse la porta della chiesa di Sant'Antonio Abate per la messa giornaliera delle 7,30.

I chierichetti, due, si sedevano sui piccoli e scomodi gradini che portano in chiesa, guardando figurine dei calciatori o quelle dei santi. Poi la porta veniva spalancata. Si entrava, si andava subito nella sagrestia per indossare la “divisa” da chierichetto, e si attendeva l'arrivo del prete, don Angelo Lombardi. C'erano poche donne, tutte vestite di nero, che occupavano i banchi della chiesa. C'era un silenzio molto interessante: escludeva tutto quello che lì dentro non poteva entrare, e non aveva niente a che vedere. Di automobili in circolazione all'epoca, ma anche come orario, erano pari a zero: non c'era nessun rumore esterno che potesse entrare in chiesa e distrarre le fedeli.

 Intanto don Angelo era arrivato e noi chierichetti già sapevamo cosa fare: prendevamo le ampolline con il vino e l'acqua, e ci mettevamo a fianco del sacerdote, per poter occupare lo spazio sull'altare. Leggevamo la Lettura e il Salmo Responsoriale, il tutto in un silenzio spezzato in un modo molto discreto, dalle voci delle donne vestite di nero. Erano degli “Amen” di remissione: come quando si dà il collo all'animale che sta per azzannarti. Sempre con il capo abbassato, le donne, rappresentavano una continuità della vita “nonostante tutto”, in un luogo sacro dove la discrezione la si poteva sentire con tutti i sensi.

 Si viveva una sacralità non gridata: come se dio volesse sussurrare a quelle fedeli che era comunque lì presente, senza voler convincere nessuno. Si assisteva alla messa delle 7,30 per meglio recepire il messaggio cristiano. La santa messa della domenica delle 11 era quella più canonica: si deve!! andare per tanti motivi. Soprattutto per apparire: ci si metteva l'abito buono e il pubblico presente era più numeroso.

 Nel “chiasso” domenicale il messaggio evangelico può sfuggire, invece nella messa delle 7,30 di una volta, nulla sfuggiva, quando si rispondeva “Amen”, si era consci della caducità della vita e della volontà di dio. Quasi una messa di remissione. Di accettazione del dolore. La chiesa alle 7,30 non era del tutto illuminata, e anche la poca luce predisponeva la mente ad isolarsi ancora di più, non solo il distacco tra i fedeli nei banchi era tanto, ma anche la mancanza di luce “accecante” ti proiettava in una dimensione francescana: poca luce e più chiarezza delle parole di dio.

 Guardando noi chierichetti, le poche donne vestite di nero, sedute nei banchi, affiancavamo quella messa mattutina a quelle che venivano celebrate per i defunti: degli “Amen” che uscivano da bocche che non riuscivamo a vedere, per quanto avevano le teste abbassate, le donne vestite di nero. Con i rosari in mano e un velo che copriva il capo: erano così vestite poiché tutte vedove, oppure alcune avevano perso un figlio in giovane età.

 Quando il sacerdote prendeva il calice dal tabernacolo, si sentiva il rumore che faceva il coperchio quando lo si apriva. Un rumore netto, quasi un campanello che ti avvisava che da quel momento stava per succedere qualcosa di importante. Anche le ampolline scosse nel loro contenitore facevano rumore, amplificato da quel silenzio di fondo. Il rumore clou era quando veniva scosso il campanello che avvisava la fine del momento di raccoglimento durante l'ostensione dell'ostia, prima della comunione.

 L'ostensione, sembrava non finire mai! Descriveva un tempo innaturale che sulla Terra non si poteva vivere se non in una funzione religiosa di tanto tempo fa, di mattina presto. Quando le parole non erano poi così importanti: davano solo un senso compiuto alle azioni del sacerdote.

 Eravamo chierichetti di 6-7 anni. E con la buona volontà, non tutti i giorni, spesso ci alzavamo la mattina presto e attendevamo che il sagrestano aprisse la chiesa di Sant'Antonio Abate. Poi arrivava don Angelo Lombardi e il Mistero iniziava... con pochi fedeli, molto silenzio e rumori sull’altare, quasi domestici, che ti riprendevano se ti fossi distratto. Anche ascoltando dio, a volte, si perde il filo del discorso...

 LUNGO IL CORTEO FUNEBRE. Ci venivano messe tra le mani delle candele. Sottili, quasi esili. Appese a vite ormai in agonia. Quattro chierichetti più il “capo”, che portava il “paliotto” davanti alla bara che conteneva il defunto appartenente a quella parrocchia. E alla fine del corteo, e prima del carro funebre, il prete (sempre don Angelo Lombardi, o don Luigi Lallo). Tutto questo preceduto dai chierichetti delle altre parrocchie cittadine. Tutti armati di candele spente. Da riportare integre al rispettivo sacerdote alla fine del funerale. Cento lire se la candela non veniva spezzata, 50 lire se veniva riportata rotta in parrocchia. Leggenda vuole che solo un sacerdote applicasse… questa clausola!!

 Si andava a ”vestirsi da morto”, quando si partecipava come chierichetti al funerale. Non ricordo se ci fosse “ressa” per poter partecipare, penso di no. Anche perché di morti quasi 50 anni fa nel nostro paese ce n’erano più di uno ogni giorno, quindi… Il corteo funebre interessava tutti e due i corsi principali: tutti dovevano sapere dell’anima che ci aveva lasciato. Ma prima del corteo si andava all’abitazione del defunto: entrava il sacerdote e un solo chierichetto che portava l’aspersorio, per poter benedire quello che era rimasto della persona cara che non c’era più.

 Penso di non aver visto tanti defunti: mi rifiutavo quasi sempre di entrare in quelle abitazioni. Al mio posto c’erano altri ragazzini curiosi. Non era facile guardare in faccia un signore senza vita, che dopo almeno 24 ore di “esposizione” avesse non proprio una bella “cera”. Spesso i defunti erano anziani, e subito dopo la morte, il loro viso si trasformava quasi completamente. Oppure alcuni corpi prendevano sembianze “quasi mostruose”: completamente gonfi, non ho mai capito di cosa. Non era un bel vedere.

 Dopo la benedizione del sacerdote si lasciava l’abitazione dove cerano una decina di persone, e iniziava il “rito del pianto”, appena il defunto veniva messo nella bara. Ed era il momento più agghiacciante di tutta questa vicenda: le voci di disperazione arrivavano dove potevano, erano come lance conficcate dentro il costato di tanti cristi non ancora morti. Le mani delle donne che si aggrappavano ai capelli, cercavano di strapparseli, e poi con qualche ciuffo di capelli tra le mani, si asciugavano gli occhi.

 Quella che si sentiva, sembrava una sinfonia mai ascoltata prima: nessuna mente eccelsa nella musica, poteva creare tale composizione sacra. La sacralità veniva espressa anche in quel modo. Donne e uomini che con i loro lamenti e pianti, componevano straordinarie “Stabat Mater” mai ascoltate prima. Uno strazio simile a quello vissuto dalla Madonna ai piedi della croce. Dove dio era morto e vivo nello stesso momento.

 LA PRIMA COMUNIONE. Tutti in blu, i ragazzini. Le ragazzine con il vestito bianco, come quello delle spose. E un solo fotografo che ti immortalava sull’altare, da solo, e poi quando il sacerdote ti metteva l’ostia sulle labbra. Il primo grande mistero. Che accettavi. Perché così ti dicevano di fare “quelli più grandi”. Forse è stato il primo momento che ci siamo chiesti: “perché?” Uno dei tanti perché che ci stanno ancora rincorrendo.

 E noi a ricordare tutti i ”peccati” fatti fino a quel momento: dalla nascita fino a 7-10 anni. I primi sensi di colpa, i primi dubbi, i primi sguardi fatti non più come prima. Si stava crescendo “nel sacro”. E da quel momento pensieri, parole, opere e omissioni, diventavano spesso delle colpe da espiare!!?? Poi, con una partita di pallone, quasi tutto veniva dimenticato: i calci tirati verso la porta avversaria sgombravano la mente da pensieri spesso offuscati dal dubbio. E poi si cresceva… E il sacro nel tempo iniziava a prendere fisonomie soggettive. Ognuno iniziava a farsi propria la Parola di Vita. A propria immagine…

 

Mario Ciro Ciavarella Aurelio