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Antonio Daniele

San Marco in Lamis, lunedì 10 maggio 2021 -  È stato il più giovane magistrato ucciso dalla mafia nella terra siciliana. Nell’espressione ragazzino che un anno dopo il suo assassinio ebbe a dire l’allora Presidente della Repubblica Cossiga, non espressamente riferita a Livatino, si racchiude tutta la vita da cristiano e da magistrato del beato Rosario Livatino. Nato nel cuore di una Sicilia lontana dalle rotte turistiche. In un’ambiente scarno, essenziale, solare.

In una cittadina, Canicattì, dove negli anni venti, all’approdo del fascismo, l’allora nonno Rosario Livatino, voltò le spalle al potere fascista nascente. Pagando personalmente tutte le conseguenze. All’amato nonno, avvocato, voleva ispirarsi. Tanto da scegliere l’indirizzo degli studi giuridici per il suo avvenire. Ragazzino è stato il termine, per me profetico, per essere riconosciuto da tutti. Ragazzino non come superficiale nel suo agire professionale. Ragazzino come quel passo del Vangelo di Matteo in cui Gesù dice ai suoi “se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno dei cieli”. È racchiusa in questo passo la vita del beato Rosario Livatino.

Ogni giorno è stato speso per rispondere alla chiamata del Signore. Il richiamo alla conversione è stata la molla di ogni sua azione. Si sentiva chiamato a un ufficio alto. Amministrare la giustizia nella semplicità. Con il cuore attento alla vita dell’uomo. Nel richiamo al comandamento dell’amore. Non faceva mistero di una profonda fede cristiana, che conciliava rigorosamente con la laicità della propria funzione. Era uno di quei cristiani, formati alla scuola dell’apostolato dell’Azione Cattolica, in cui era chiaro il suo essere pienamente nella città dell’uomo, con lo sguardo rivolto alla città celeste.

Nelle poche occasioni in cui ha parlato del suo agire da magistrato così si esprimeva: “Il compito del magistrato è quello di decidere: una delle cose più difficili che l'uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio”. Dopo poco tempo i suoi assassini, questi sì ragazzini, si sono pentiti e convertiti. Di fronte alla disarmante domanda del giovane magistrato che caduto per terra l’implorava sul perché della loro azione, è nato un seme nuovo. Un popolo che ha incominciato a voltare pagina.

A girare le spalle al potere mafioso. Quando Papa Giovanni Paolo II si recò ad Agrigento in visita pastorale, volle incontrare i genitori del beato Livatino. Rimase sconvolto dalla profonda fede e semplicità di questi genitori che avevano perso l’unico loro figlio. E nella valle dei Templi, il 9 maggio, lo stesso giorno scelto per la beatificazione di Livatino, pronunciò uno dei discorsi più duri e chiari alla Chiesa e al mondo, contro la cultura mafiosa. Fede e giustizia, insieme alle altre virtù, sono state il perno di una vita spesa e donata per amore.