Antonio Del Vecchio

Rignano Garganico, sabato 15 giugno 2019 - Un tempo, in paese  l’allevamento delle galline era praticato da tutti. Non c’era casa che non avesse accanto alla porta del piano terra una capiente gabbia zeppa di volatili, ovaioli o meno. Di solito quando ti avvicinavi, a salutarti per primo con il suo “chichirichì” era il gallo.

I polli erano assai amati dalla gente. Lo erano più del cane, perché la loro carne a tavola  costituiva una proteina  a buon mercato, come i legumi, E  di essi, in particolare, ceci, fagioli e cicerchie, perché la coltura era assai diffusa nella zona montana, dove ogni cittadino aveva il suo appezzamento di terra e il pagliaio in pietra, come ricovero in caso di intemperie. Costruzione, quest’ultima,  di forma semiconica e  di origine incerta, assai diffusa nel territorio in menzione.  Le anzidette gabbie, spesso erano rimediate alla meglio  da vecchie tavole  e raramente si ricorreva all’opera costosa del falegname. Altri preferivano, invece,  allevare le galline all’aperto, Lo facevano un po’ tutti coloro che abitavano nelle periferie o che avessero un cortile o un fondo proprio nelle vicinanze della propria abitazione. Questo, accadeva di giorno, ma di sera, i volatili tornavano alla loro dimora, ossia alle apposite casette, costruite vicino casa. Tornavano volontariamente o richiamati appositamente  dalla calda voce dalla padrona o da altri, che ne facevano la conta. Da questo punto di vista si può dire che  il paese era circondato del tutto da galline in libera uscita. Dire polli, significava dire anche tradizione. Il pollo locale è legato, infatti, al Ferragosto. Per il paese festa patronale in onore dell’Assunta e di San Rocco. Infatti, puntualmente lo si consuma tutt’ora per l’occasione a pranzo, al sugo con le orecchiette o al forno con le patate. Per cui alla domanda: “quando si mangia il pollo?.”

La risposta da parte anche del cittadino più sprovveduto era scontata: “A mezzo-agosto!”(traduzione dialettale di Ferragosto). Di siffatta usanza, personalmente conservo nella mente una prova inconfutabile. L’occasione mi capitò nelle vicinanze dell’esame di ammissione al Liceo Classico, ossia in V ginnasio. Era un’ estate torrida. Un certo giorno di fine giugno concordammo con il mio compagno di classe, Angiolino, di effettuare il ripasso delle lezioni preparatorie in ogni materia a casa mia, ubicata alle periferia del paese. Quest’ultima, seppure finita ex-nova, non ancora era abitata. Per cui si presentava bene allo scopo. Nei giorni precedenti facevamo le ‘prove’ nello studio del  suo Palazzotto, ubicato nel centro storico. Qui di solito ci accudivano le sorelle, fornendoci spesso acqua fresca proveniente dal loro fornito frigorifero e leccornie varie. Il papà, personaggio assai noto in paese per le sue  stravaganze, non amava le elemosine! L’interruzione delle lezioni procurava distrazione e scarso profitto. Per cui pensammo bene di spostarci. Nel farlo, ci rifornimmo presso l’anzidetta dimora di una grande quantità di  ghiaccio, necessario per il raffreddamento e la tenuta dell’acqua da bere per diverse ore. E ci avviammo alla nuova stazione. A quel tempo nessuno aveva in casa un congelatore. Salvo il vino che veniva venduto da Mumù, dalla Cantiniera e da altri già raffreddato con la neve, il resto dei liquidi si beveva caldo o tutt’al più dopo averlo tenuto alcune ore in bottiglia, affondata dentro una cisterna o se si stava in campagna nel pozzo di acqua sorgiva.“Facciamo presto – disse il mio amico- altrimenti si fa tardi e avremo poco tempo per lo studio e la prova”. Di solito era l’Italiano, la materia ostica su cui  il mio amico arrancava maggiormente.

E me ne accorsi a mie spese. Quel giorno avevamo in programma Leopardi. Cominciai: “Dimmi quali sono i principali Canti di Leopardi?. E lui, ben ferrato sull’argomento, rispondeva di seguito: “Il passero solitario; l’Infinito; La quieta dopo la tempesta; a Silvia, ecc. Ed ora passiamo alla prosa: quali sono le più importanti operette morali? Ed egli: “I Cantici!. Dimmi, un titolo e una rappresentazione assai cara alla tradizione, sollecitai ? E poi, preso dall’entusiasmo, aggiunsi: “ Per esempio, il ga…il ga…! Egli, non afferrando il senso della mia domanda, si bloccò. Ad un certo punto, per solleticare la sua memoria, domandai: ! “Che si mangia al Ferragosto?”. Ed egli di botto: “Il galluccio? “No, il gallo- ripetei – il gallo silvestre. Era questa la risposta esatta e volevo che lo dicesse lui per fissarlo bene in mente. E allora, ricominciai, dopo una breve sosta  e cambio di discorso: Qual è il Cantico più importante  di Leopardi?. E lui sicuro, rispose: il galluccio silvestre. Il dialogo si ripeté varie volte. Manco a farla posta, fu questa la domanda che  gli fecero all’esame. Ed egli, imperturbabile rispose: “Il galluccio silvestre”. Il compagno non l’ho più visto dall’Università. So che è diventato un avvocato famoso e vive lontano dal paese. Di lui conservo sempre  l’anzidetto gradito e scherzoso ricordo. Riprendendo il discorso iniziale, di polli in  paese ce n’erano tanti in tutti i sensi. Ciò scatenò subito la corsa al ladro. Ossia a trovare la soluzione di come impossessarsi di essi, senza rimetterci la faccia e la dignità. Si formò una prima banda con a capo uno che riusciva a torcere letteralmente il collo ai volatili. Si individuò e si consultò subito il tipo disponibile ed esperto, ritenuto come quello femminile, uno dei mestieri più antichi del mondo: il ladro. Si chiamava Francescuzzo.

Mi manifestò per la prima volta la sua bravura - inclinazione, a casa mia, dove veniva a prepararsi per gli esami di riparazione di II media, a Settembre. Eravamo in una stanza del piano superiore, servita da un’ampia finestra di affaccio a Nord. Durante una pausa, vi si sporse dal davanzale, e disse: “Professore, ci facciamo due galline?”. Che dici? Guardai e mi reso conto che era vero. Di sotto c’erano due pollastre, che si contendevano uno dei tanti vermiciattoli che di solito affollavano le strade di terra battuta della periferia. Erano quelle della comare Rosinella, nostra vicina di casa “No, no! - aggiunsi – Se si accorge la comare, sono guai! Le nostre famiglie, per via del San Giovanni, si rispettano da anni! - conclusi“Ma dai, che vuoi che sia due polli”- rispose impertinente il mio alunno. Quindi, incuriosito, continuai il mio dire: “Come farai? Se scendi, ti vedono!. L’interessata aveva l’uscio proprio accanto al mio e vicino c’era la ‘caiòla’ (la gabbia) con il resto delle galline. Strappato a forza il mio assenso, il giovinotto si mise subito all’opera, tirando fuori dalla tasca il suo arnese da scasso: una banale funicella con fava. La calò giù. Una delle due galline abboccò e lui la tirò su bella e stecchita dal cappio. Alla stessa maniera fu presa l’altra. Si portò a casa entrambi i volatili. A sera, mi chiamò e mi fece assaggiare un pezzo di esso appena rosolato. Sapeva di zucchero! Per modo di dire. Fu il suo primo bigliettino da visita per le avventure future in questo e in altri campi. Qualche anno dopo, il ragazzo era diventato adulto.  Era aitante e soprattutto bello. Le donne, se lo rubavano con gli occhi e non sapevano dire di no al suo fascino naturale, fatto di sensualità e di sentimento. Sapeva cantare bene. In quel tempo era in voga la canzone “Una lacrima sul viso…” di Bobby Solo.

Di essa era un interprete perfetto. Tant’è che la sera di Ferragosto di circa una sessantina di anni fa la sua esibizione dal palco naturale del Palazzo fu accolta con un mare di lacrime vere dalla sottostante folla di spettatori in visibilio, in massima parte composta da giovani ed adolescenti di ambo i sessi. Tra essi c’era anche Tiziana, una brunetta tutto cuore, di lui innamorata perdutamente, nonostante l’avversione della famiglia che per lei aspirava ad un partito migliore. Partito che in seguito trovò, dopo un amorazzo con un professore ben messo, abbandonando così per sempre il paese, mentre il suo Francescuzzo  nonostante la sua avvenenza non conquistò mai chi amava per davvero, accontentandosi di vivacchiare alla meglio, avventura dopo avventura sino alla fine. Nel novero c’era pure la giapponesina e una prosperosa straniera, che lo lascerà in tronco, non potendo più delle sue illusioni. Una volta, ci trovammo insieme alla casa degli appuntamenti. A quell’epoca, bazzicavo con Celina, una dei miei più grandi amori. Di questo e di più ne parlerò in un apposito capitolo. Comunque sia, me la spassai alla grande. La sua boccuccia, si incollava alla mia come una calamita e così il resto del suo tenero corpicino di sedicenne. Dal mio canto, le sussurravo all’orecchio: “Torna da me, Torna da me! Non vedi che stiamo così bene!?  Parimenti, in un’altra stanza, Tiziana amoreggiò con Francescuzzo, libera e contenta, sfuggendo così  per l’ennesima volta alle spie che la famiglia aveva messo alle sue costole. Un tardo pomeriggio ci ritrovammo tutti al Pizzo dell’orto, compreso il menzionato capo della banda di cacciatori di polli, appena costituita. Formammo la squadra, di essa, oltre ai suddetti, facevano parte l’aiutante del capo, Matteomanolesta”, il raccoglitore Santuccino , detto chiattone, e  il suo inseparabile compagno, Fazino, alias il  sammarchese.

Al mio amico intimo Fabrizio, detto occhio fino, per via della sua predisposizione alla regia, e a me fu affidato il compito di contro-spionaggio. Avevamo persino predisposto una strategia. Noi due saremmo rimasti  in vedetta sul bordo del pizzo, sia per vedere la gente che si avvicinava per il passeggio quotidiano sia per seguire le varie fasi del ratto delle galline. Si  misero subito all’opera. La squadra scese giù dallo scosceso balzo e si dispose in fila distanziati l’uno dall’altro di alcuni metri. Avanzò il capo e in un baleno attaccò e, facendo finta di cadere, con la mano destra torse il collo alla prima gallina, lanciandola seduta stante dietro un rovo o nell’erba alta dei pressi. E tirò avanti per un’altra gallina e poi a seguire gallucci e pollastre vari. Nel mentre il Chiattone non stava con le mani in mano, ma trascinandosi dietro il suo sacco di iuta, prendeva dalle mani dei cercatori sunnominati i sanguinanti volatili. Al termine della provvista, tutti si volatizzarono, lasciando sul campo solo l’uomo con il sacco che, assicuratosi che in giro non c’era nessuno, provvide qualche tempo dopo a recapitare la merce alla mangiatoia (la casa dove la refurtiva veniva pulita e poi cotta e mangiata in varie salse e tipo di cotture). Di solito era la mia non finita abitazione, posta all’estrema periferia del paese, detta appunto Montelepre. Una volta qui patimmo un brutto scherzo. Mentre i cucinieri stavano spennando i polli, udimmo bussare alla porta d’ingresso. Scesi per rendermi conto chi fosse. Semi-aprii una pacca della porta e vidi che si trattava di un viso amico. Era la sorella grande di uno di noi, Incornatella, che disse subito: “Vengono i Carabinieri!”. 

Alle sue parole, seguirono subito i fatti. Mentre chiacchieravo con la nuova venuta, sopra si avvertivano una serie di rumori. La comitiva si dava da fare per fare sparire le tracce del presunto misfatto e nascondendosi a loro volta nei vari meandri della struttura. “Dimmi la verità – dicevo alla visitatrice – ci cercano per davvero i Carabinieri o è uno scherzo di cattivo gusto che ci vuoi fare?. Eppure c’è anche tuo fratello Cecchino. A seguito delle mie insistenze ella ad un certo punto sbottò con una fragorosa risata: “ L’hai presa!” (la burla) e andò via, continuando a ridere a crepapelle, com’era suo uso e costume ancor oggi. Risalii sopra e notai subito che non c’erano più, né uomini, né polli. Le penne però sì. L’episodio fu appreso e diffuso   con sottesa ilarità  tra gli amici stretti, e tutti risero di gusto: eravamo anche noi dei polli maldestri!. In seguito, farsi le galline, diventò un’abitudine. Cambiammo anche casa. La mangiatoia diventò quella di un vero maestro di cucina, zio Pietro. Per noi era una sorta di papà sapiente. Faceva tutto da solo. Noi eravamo solo i commensali. Una volta trovammo un modo più consono  per procurarci la merce a buon mercato e senza difficoltà alcuna.

Un forestiero che viveva in paese, di professione postino, ci mise a disposizione la sua “Cinquecento” decapottabile. Con essa si girava attorno al paese e ci si fermava là dove razzolavano felici e contente le nostre galline. Poi,  allungando le mani dai finestrini o dal tetto scoperto, in poco tempo si faceva incetta della merce necessaria, e consegnata al nostro cuciniere, per essere cotta e mangiata la sera stessa. La rivalità tra noi era assai forte. Pertanto, una volta dopo aver accalappiato  due polli, di cui uno in piazza, li consegnammo  al nostro protettore e cuciniere. Io e il regista concordammo di non invitare a cena il sammarchese e il chiattone, perché entrambi avrebbero sollevato delle aspre critiche  contro il figlio maggiore del nostro cuoco. Mi dissero: stasera prendiamo l’arrosto e l’andiamo a mangiare a casa tua.  Intanto, il regista aveva parlato della medesima proposta a Francescuzzo. Così che la sera, prelevarono con un pretesto i due polli e se ne andarono a mangiarli, non ricordo dove. Quando, il regista tornò più tardi alla sua dimora, ebbe l’amara sorpresa: La mamma, facendo il conto delle sue galline, si accorse che ne mancava una, quella più grassa. “Oh ca!” – disse tra sé e sé il nostro burlone – quella che ho mangiato questa sera era, dunque, la mia gallina!? Insomma: chi la  fa, l’aspetta!