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di Nicola Maria Spagnoli

Roma, domenica 12 aprile 2015 -  Parlare di un disco di Paul McCartney è imbarazzante, sia per la mole discografica del soggetto (60, 70 dischi?) che si presuppone debba essere conosciuta e acquisita da chi scrive, sia per quello che si potrebbe dire, sempre soggetto a critiche e precisazioni, a volte inutili. Paul ha iniziato a fare il solista in piena era Beatles, nel 1967, subito dopo il famigerato capolavoro Sg.t Peppers, con la colonna sonora di un un film, The family Way, il suo primo disco di musica classica, affatto male, che venne anche premiato con l’Ivor Novello. Per un successivo simile lavoro si dovrà aspettare un quarto di secolo e sarà l’osannato Liverpool Oratorio del1991. Verranno poi Standing Stone (1997), Working Classical (1999) e Ecce Cor Meum (2006).

 Nel frattempo dopo il commiato del quartetto con Let it Be, vennero i primi dischi da solo come polistrumentista e cantante, l’ottimo Ram con la moglie Linda, poi gli otto dischi dei Wings, alcuni buoni altri discutibili ed infine la valanga di dischi solisti inframezzati dagli sprazzi classici o di avanguardia come quelli sotto il nome Fireman che è il nomignolo dato agli esperimenti di musica elettronica creati con Martin Glover. È molto probabile che il nome The Fireman fosse stato scelto come riconoscimento di Paul nei confronti della metafora di George Harrison di portare lui la responsabilità del quartetto come Beatle sopravvissuto. In una intervista del Rolling Stone nel 1987 difatti Harrison disse: «Non credo che mai ti ritirerai. Ti sento come qualcuno simile a un pompiere (Fireman, appunto).

Egli si siede senza far nulla tutta la vita nel suo abito da pompiere. Ma quando va a lavorare, ce la mette tutta, e accende il suo motore di fuoco». Nel 1993, il duo Glover/McCartney pubblicò il primo album: Strawberries Oceans Ships Forest, proseguirono con Rushes nel 1998. Nel 2000, Glover prese parte all'album di McCartney Liverpool Sound Collage, simile in stile a quelli dei The Fireman. Questi primi due dischi pompieristici non entrarono in classifica e furono di difficile reperimento, il terzo, Electric, l’ho conosciuto perché trovato per caso su una bancarella, mi piacque la copertina astratta (foto 1), i titoli sul retro (foto 2) e quindi eccoci qua.

 Quando Sir Paul McCartney fa cose spontanee e senza pensarci due volte, a parer mio, in musica come nei disegni di questo album, devo dire che gli vengono decisamente meglio di quelle meditate e con tanti collaboratori. Niente orpelli esagerati, nelle melodie come negli arrangiamenti, siamo di fronte a un disco registrato in soli tredici giorni, uno per ogni brano con non molti ricordi beatlesiani, piuttosto molti sguardi al presente anche per via della eccellente e giovane collaborazione di Youth, tutte cose che non ti assicurano certamente un capolavoro ma almeno un buon disco allineato con i tempi. Il celebre quartetto, com’è noto, ai tempi dei tempi, non precorreva i…tempi come molti allora pensavano, ma diffondeva , ed anche molto bene, in maniera planetaria, sprazzi di buon rock, di avanguardia, di psichedelia di riporto, di elettronica e via dicendo, tutte cose che in questo disco vengono viepiù sottolineate adattate al nuovo millennio. Questo Electric Arguments non ebbe il favore del pubblico forse perchè creduto troppo sperimentale (colpa della copertina astratta?) anche se di sperimentale non sembra ci sia molto.

Certo ci sono brani che strizzano l’occhio alla Kosmiche musik come Lovers in a dream e Universal here che sembrano usciti da un Dune di Klaus Shulze un pò più dance, al pop elettronico, Dance til we’re high ricorda il primo Moby, qualcosa di gospel moderno ben riuscito, Light from your lighthouse, ma anche trucchetti ingenui come l’ interruzione di circa 3 minuti a metà brano e il finale new age per l’ultimo pezzo Don’t stop running to. Infine, il che non guasta, vigorosi arrangiamenti rock in Nothing too much just out of of sight e Highway, che sembrano tirati fuori dall’armadio del famoso White album dei Beatles. E’, dicevamo, il terzo disco uscito a nome dei Fireman, il primo con parti cantate e il primo in cui compaiono palesi i due nomi ovvero Paul McCartney e Martin Glover, nome d’arte Youth, anc’egli polistrumentista ed ex bassista dei bravi Killing Joke oltre che affermato produttore (non ultimo l’Endless river pinkfloydiano) . Comunque questo fu l’unico disco del duo che fece un timido ingresso nelle classifiche inglesi e americane.

Sir Paul si sa che oltre a coltivare il suo stile beat molto remunerativo ed eterno nei secoli, ogni tanto ama, forse per farsi perdonare le eccessive leziosità e per dimostrare ai critici che è un grande musicista, cimentarsi nella classica contemporane o nell’avant-garde come dimostrano, a volte felicemente, i tanti episodi che accompagnano la sua carriera (chi sa del Ram strumentale del ’73, sotto falso nome?) come appunto i primi due dei Fireman. A volte adegua anche le copertine a questa voglia di trasgredire come ben documentato anche dal corposo libretto, di ben 48 pagine, che accompagna quest’opera con disegni spontanei e veloci fatti a quattro mani, anche sulle pareti dello studio, con uno stile che si potrebbe inquadrare sia come arte infantile che come Art brut, alla faccia di Dubuffet o Tapies che non sarebbero stati affatto d’accordo ad unire le due cose.

Difatti se questi segni colorati, pupazzetti sexy, ironici o disegni fantastici in B/N appartenessero alla fase infantile come quelli sulla copertina e sul libretto di John Lennon nel celebre Walls & Bridges saremmo di fronte ad una improbabile regressione fetale, più probabile quindi un malcelato desiderio di purezza e verginità, finalizzato ad un lavoro frutto di impulsi creativi puri ed autentici - dove le preoccupazioni della concorrenza, l'acclamazione e la promozione sociale non interferiscono – e che sono, proprio a causa di questo, più preziosi delle produzioni dei professionisti. Dopo il battesimo francese dell’Art Brut, ci sembra quindi più adatto, per queste illustrazioni, il termine Outside Art che in ambito anglosassone si riferisce non ad espressioni anti professionali o a stati mentali psicotici ma piuttosto a quelle autodidatte non istituzionalizzate che a volte si avvicinano persino, nel nostro caso all’arte informale di un Hartung. In conclusione sembra che l’idea di illustrare figurativamente il loro nome, the Fireman e di dare un titolo contemporaneo all’album abbia scatenato il senso del gioco, che è sempre una cosa serissima, e del divertimento coloristico dei nostri, come quando degli amici si divertono a pasticciarsi l’un l’altro con i colori in una festa goliardica.

                                                                                                 Nicola M. Spagnoli

foto 1 

 

 foto 2

 foto 3