Nicola M. Spagnoli

Roma, mercoledì 13 maggio 2015 -  Beethoven soprattutto ma anche Rossini, sia in versione originale Deutsche grammophon che strapazzati nevroticamente al Moog come il 2° movimento della Nona sinfonia o l’Ouverture del Guglielmo Tell. Poi la versione di Gene Kelly di Singin’ in the rain introdotta a forza, perché era l’unica canzone di cui Malcom conosceva le parole e che fece indignare l’autore, Arthur Freed, allora ancora vivente, perché unita a scene di violenza estrema.

 Poi ancora altre musiche classico-medievali o contemporanee di altri autori, una colonna sonora, insomma, mista e variegata, ascrivibile a metà a Carlos, come performer poiché di suo c’è un solo pezzo nuovo ed originale: Timesteps e nemmeno intero ma un estratto anche se il disco fu impostato in questo modo: “Trans Electronic Music Productions Present Walter Carlos’ Clockwork Orange”. Tutto per via dei precedenti clamorosi successi di Carlos, per primo quell’intergalattico Swiched on Bach e poi, ma di meno. per The well tempered Synthetizer (i primi dischi del nostro o della nostra visto che l’enfant-prodìge, già all’epoca del film di Kubrick, da Walter si era trasformato in Wendy per il tramite di una molto pubblicizzata operazione chirurgica).

I dischi elettronici su Bach erano finiti ai primi posti nella classifica di Billboard nel ’68-‘69 e poi furono presenti nei primi 100 almeno per il decennio successivo ed oltre e quindi inevitabilmente anche questo sballo’ le charts. Il merito di Wendy/Walter Carlos fu soprattutto quello di aver popolarizzato il sintetizzatore, di averlo fatto entrare nella cultura rock passando dal portone principale della musica, quello della classica. Purtroppo di rilevante e di suo, successivamente, anzi proprio l’anno appresso, fece solo il doppio Sonic Seasonings, un disco sorprendentemente proto-new age e risulta anche autore ed esecutore, nei lunghi bonus presenti nella recente ristampa in CD (Foto 1), ma accreditati all’epoca (chissa’ se e’ vero!), anche di brani in stile kozmic-sound, degni in verita’ del miglior Klaus Shultze di qualche anno dopo. Insomma sembrerebbe proprio un precursore in piu’ campi ma il tutto e’ ancora storicamente da accertare.

Ma arriviamo alla copertina originale italiana (foto 2), che riproduce, ma meno elegantemente, quella americana quasi simile. Entrambe pero’ durarono poco perchè fu subito adottato il riuscitissimo logo triangolare del film, nelle ristampe degli LP e nelle versioni successive in CD, vedi prima foto, in cui sparì il nome di Carlos e perfino nelle riedizioni con grafica kitsch a nome esclusivo di Carlos. Il cubo trasparente della poco durevole copertina è accreditato a Karenlee Grant che imita il “cubo variabile” di Robert Rauschenberg, simbolo emblematico del new dada americano, che amava cubi e parallelepipedi con dentro oggestistica varia. Precedentemente la Grant aveva fatto un’altra copertina, nel ‘70, convenzionale ed alla moda psichedelica, per un autore elettronico pazzoide dell’epoca, quel Bruce Haack di Electric Lucifer, album oggi molto ricercato dai collezionisti.

Ma torniamo alla cover classica quella del cubo trasparente: dentro, tutta la simbologia del film, collage di carabine e ritratto di Beethoven, maschere, latte, ballerini, occhio, meccanismi d’orologio, cosce e tette e tanta altra oggettistica, tutto classicamente new dada che era già uno stile classico a poco più di un decennio dal suo exploit.

Il New dada americano degli anni ’50 era una filiazione del dada classico, quello di Duchamp per intenderci, di alcuni decenni prima, ma rispetto al gemello Nouveau realisme nato contemporaneamente in Europa, che era più ligio al “dovere” duchampista della provocazione (Piero Manzoni). Il rifiuto di realizzare opere d’arte tradizionali e la predilezione per il ready-made (oggetti trovati), con raccolta di oggetti abbandonati o assemblando e conservando (polemicamente) i prodotti della società dei consumi, comunque, come dicevamo, duro’ poco sebbene piu’ “artistica”. A fare più effetto sul pubblico fu la seconda, come dicevamo, quella finto-minimalista con il logo triangolare, che in fondo era il manifesto del film ed un poster che spopolo’ allora e che spopola tuttora.

 

di Nicola Maria Spagnoli

 

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foto - 2