Nicola M. Spagnoli

Roma, sabato 11 luglio 2015 -  Forse questa è la copertina più bella dei Jefferson Airplane, o almeno quella con più riferimenti alla storia dell’arte, che è stata abbinata però al disco più inutile della loro carriera. Dopo almeno una dozzina di capolavori assoluti (dal 1965 in poi ogni disco è praticamente un capolavoro) concludere così, con un live, dai concerti di Chicago e S. Francisco del 1972-73, alquanto floscio e nient’affatto rappresentativo, è apparso ai tempi quasi come un’offesa a tutti gli appassionati, allora tantissimi, dell’ensemble ai tempi composto da ben 7 elementi.

 Un disco forse fatto solo per doveri contrattuali con versioni, per lo più rallentate rispetto agli originali in studio, di alcuni loro pezzi storici in cui, ahimè, vengono abbastanza penalizzate sia la superba voce della bellissima Grace Slick (che fu grande amica di Janis Joplin la quale certamente non amava, se non raramente, apparire con lei in foto per via del confronto certamente sfavorevole), che, incredibilmente, perfino la tipica coralità di gruppo che aveva fatto la fortuna delle loro canzoni acid-rock. Canzoni senz’altro fra le più psichedeliche della west-coast ma comunque completamente diverse dai “pezzi” o dalle Jam degli altri profeti del genere, come i Grateful Dead.

Canzoni che però allora davano emozioni e brividi anche ad infiniti ascolti ripetuti ma che oggi appaiono come “storicizzate”, quasi come confinate nel periodo, forse irripetibile, del Flower Power ma che forse potrebbero essere, prima o poi riscoperti alla grande, come avvenuto di recente per gruppi, a parer mio meno incisivi ed emozionali. Si salva in questo disco, unica credo, la lunga Feel so Good (oltre gli 11 minuti), ottima performance di un brano tratto da Bark per merito però dell’autore dalla storica e caratteristica voce nasale, il chitarrista Jorma Kaukonen, e naturalmente della sua chitarra che qui duetta mirabilmente con il violino di “Papa” John Creach.

Certo quell’anno c’erano stati fin troppi dischi della family jeffersoniana, fra cui Quah dello stesso Kaukonen che da allora in poi, con Casady, si dedicherà esclusivamente al gruppo degli Hot Tuna. C’era stato l’autocelebrativo Manhole della Slick, ma anche il miglior disco del nuovo corso dei Jefferson, sempre più astrale, il solenne e accattivante Baron Von Tollbooth, che continua, anche se musicalmente ammorbidito, il discorso iniziato stupendamente nel ’70 con Blows Against The Empire, un progetto, dopo il periodo rivoluzionario, di fuga dalla realtà, verso un nuovo, utopico, mondo, fra le stelle. I Jefferson Airplane diventeranno Jefferson Starship e poi successivamente solo Starship, avranno molte soddisfazioni (finalmente) commerciali, ma niente più di paragonabile ai furori ed ai fulgori creativi degli anni ’60: la strana macchina volante del ’67 (la copertina del capolavoro After Bathing at Baxter’s) si trasformerà in una astronave tipo Enterprise, ovvia, scontata e poco credibile (i Galactic tour tuttora in corso dei superstiti del gruppo, all’insegna di “Saves the Universe”: decisamente troppo per un gruppo con tali trascorsi). Altre copertine del gruppo hanno fatto storia, quella di Long John Silver a forma di scatola di sigari, quella di Bark, con realistico storione, avvolta da carta da pesce (almeno sembra!), gli interni color argento vivo delle copertine spaziali o, la più apprezzata dalla critica, quella di Dragon Fly con la donna-robot-libellula ispirata forse dall’icona di Friz Lang in Metropolis.

I tostapane volanti di questa copertina, estremamente surrealista, sono certamente un riferimento embrionale alle sofisticate future astronavi delle copertine degli anni a venire, ma anche un’evoluzione delle Surrealistic Pillow del secondo disco, quasi come se tutto il progetto fosse predeterminato e presente (presa di coscienza, rivoluzione, resa e fuga) fin dagli inizi, da quel lontano 1966, nella mente dell’eccentrico e geniale leader del gruppo, Paul Kantner.

Scandagliare la psiche per far emergere il sogno, la via règia verso la scoperta dell’inconscio, dando alle immagini un valore essenzialmente simbolico era l’obiettivo della corrente surrealista, figurativa anziché no proprio perché il sogno propone essenzialmente immagini ed è, quindi, un viaggio mediante il quale si arriva ad una realtà superiore, il giusto equilibrio fra realtà e sogno, la Surrealtà che sembra, possa essere stato, anche l’obiettivo del nostro musicista-filosofo.

Non sembra sbagliato, a questo punto, indicare questa cover (scordiamoci però del contenuto) come la più rappresentativa, e senza fronzoli liberty, come in genere usava nei coevi poster psichedelici, la più intelligente e psicologicamente adeguata sia per il Flower Power che, perché no!, per l’acid-rock melodico. Fornire di ali un inutile oggetto ai tempi del consumismo e librarlo, in squadra poi, sopra le nuvole (ci vorrà pure qualche comodità in questa ricerca di un mondo nuovo!), è un rifacimento di tanti quadri di Magritte, in cui si vola spesso, come quegli omini tutti uguali, oggetti misteriosi, di un celebre quadro poi ripreso integralmente sull’album di un altro gruppo jazz-rock dell’epoca che ho ma che ora non ricordo. Successivamente molti furono i neo-surrealisti, come Paul Edouard, costui più ispirato a Dalì che a Magritte, e molte le comodità da trasferire in mondi iperuranici. Lo stile surr calzò a pennello nei ’70 per le copertine di libri e riviste del mistero (come in quelle di Karol Thole per Urania) e non poche volte venne utilizzato anche nelle copertine Rock di cui l’antesignana ci sembra stata quella di Jeff Bec, il Beck-Olà del ’69.

 

                                                                          Nicola Maria Spagnoli