Mario Ciro Ciavarella Aurelio

San Marco in Lamis, mercoledì 29 gennaio 2020 -  Si aspettava in piazza l’arrivo della corriera. Che per molti era “la pustala”. Intesa come servizio postale, che non trasportava solo i passeggeri, ma anche lettere e cartoline. Che tanti anni fa si scrivevano per tante occasioni. Per gli auguri, tra gli innamorati, per casi seri, e per tutto ciò che per telefono (per chi ce l’aveva), non si poteva dire.

 E poi, non tutti sapevano scrivere. E allora ci si rivolgeva ad un maestro oppure ad un professore che abitava nelle vicinanze (dietro volontaria ricompensa di una coppia di caciocavalli), uomo di fiducia, che avrebbe tenuto per sè e per sempre, il segreto di quelle missive. E spesso non era così. Soprattutto quando in quelle lettere c’erano notizie non rassicuranti: malattie di congiunti.

 In quei casi il segreto non sarebbe stato d’aiuto: bisognava coinvolgere  alcune persone, magari del settore, per cercare ospedali o medici che avrebbero potuto risolvere quei casi. Nelle lettere c’erano le vite di tutta l’umanità. Una Bibbia laica che coinvolgeva le vite di tutti: dalla Genesi fino all’ultimo libro personale di ognuno di noi. Nelle lettere si leggevano parole dette in faccia, se non dette in questo modo, forse non avrebbero avuto lo stesso valore: dovevano rimanere nel tempo, nella mente del destinatario.

 Quando si scriveva c’era più tempo per riflettere e cercare le parole giuste, quelle che avrebbero coinvolto il lettore a prendere la decisione che si attendeva dallo scrivente. Se giusta fosse stata. Anche l’attesa giocava un ruolo importante: si aspettava l’arrivo di una lettera che forse avrebbe risolto un problema.

 “Ti scrivo tra quindici giorni”, così poteva concludersi una lettera, e quei giorni non passavano mai. E poi, cosa si poteva scrivere di così   importante tra una quindicina di giorni, che non si potesse dire dopo pochissimi giorni? Il tempo sospeso giocava a favore di amori che si stavano formando. In questi casi l’unità di misura del tempo era l’arrivo   di una lettera: se veniva scritta e spedita ogni settimana, allora quella relazione era consolidata o si stava consolidando.

 Se invece le lettere venivano scritte ogni mese, allora c’era qualcosa che non riusciva a legare i sentimenti di quelle due persone: unità di tempo   troppo dilatata. Anche la grafia ti faceva subito capire con quale stato d’animo lo scrivente avesse composto quelle missive: parole messe in fila senza che cadessero verso il basso, allora non c’era di che preoccuparsi su quello che c’era scritto. Se invece le parole tendevano a cadere senza mantenere un’ideale riga dritta, e allora il pessimismo dello scrivente era   tutto lì dentro, tra quelle parole.

 

Le telefonate erano per pochi, le lettere per tutti. E poi c’era più gusto a leggere una lettera: quelle parole si potevano rileggere quante volte si voleva. Diventavano quasi un “salmo responsoriale” poco sacro se quelle battute tra innamorati erano “buone e giuste”. Venivano conservate. E difficilmente venivano smarrite. Conservate dentro dei libri. Che quando venivano aperti, le lettere erano lì, come se fossero delle appendici a storie di quel libro.

 Andando molto indietro nel tempo, le lettere contenevano spesso dolore e sangue, versato da militari chiamati a servire la Patria. Nazioni che   venivano difese da gente inerme mandata allo sbaraglio: giusto per fare numero, dopo l’ordine dato da pochissimi uomini, comandati a loro volta,    da altri uomini che stavano al di sopra di tutti. E che prendevano vitali decisioni: morti su morti.   

 Carneficine “spiegate” senza mezzi termini, dagli Alti Comandi, ai parenti dei militari caduti, e spesso trucidati. Con delle lettere.  

 Le lettere dal fronte avevano un sapore che sapeva di trincea: erano sporche e scritte con una grafia che trasudava agonie che non avevano mai fine. I pochi scrivani che scrivevano dal fronte, cercavano di trovare i termini giusti per non far troppo preoccupare i destinatari di quelle missive. Anche se dovevano comunque dire la verità. Erano lettere che molto volte ripetevano sempre gli stessi concetti: stato di salute del soldato, i pensieri per i figli e le mogli, e la volontà che quella guerra finisse subito.

 Poi ad un certo punto quel milite non scriveva più. E si capiva che non c’erano più parole da far arrivare ai famigliari, poiché era tutto finito. E le lettere giunte dal fronte, venivano messe intorno alla foto che ogni militare si faceva fare prima della partenza. E sotto la foto, appesa al muro, c’era una piccola luce, che nel tempo cambiava colore: da gialla diventava rosa e poi quasi nera. Ma non veniva mai spenta.

 “Mia cara madre, sta pe trasì Natale, e a sta luntano cchiù mme sape amaro… Come vurria allummà duje o tre biangale… comme vurria sentì nu zampognaro…” E’ un canto straziante, messo su carta da un emigrante, che scrive alla famiglia. Si possono toccare queste parole, e su di esse sono sicuramente cadute le lacrime della madre e degli altri famigliari, quando lessero quella lettera. Inchiostro e lacrime si fondono per dare vita a rivoli di dolore colorato di nero. Come abbracci in miniatura che scorrono e accarezzano le parole di quella lettera.   

 E la partenza dal luogo di lavoro per rientrare alla casa natia, veniva preannunciata qualche mese prima. Sempre tramite lettere. Era un preciso conto alla rovescia, scandito da lettere che venivano inviate quasi quotidianamente. E ogni lettera aveva il sapore del sugo che veniva fatto mentre la si scriveva: macchie rosse e odore.

 Poi si arrivava a casa!! E all’emigrante si mostravano le lettere ricevute: testimonianze di amore corrisposto nonostante la lontananza!! E le si rileggevano insieme, magari chiedendo cosa significasse quella frase. Ma molte frasi non avevano una spiegazione: l’ignoranza c’era e voleva essere dimostrata con tutta la sua forza e amore per la famiglia. Non era importante la grammatica e la sintassi: ma le intenzioni!!

 E poi le lettere degli emigranti venivano conservate nelle dispense alimentari, dove c’erano le bottiglie d’olio, il sugo e tutto ciò che veniva preso per darlo all’emigrante quando ripartiva. Era una specie di biblioteca minima che non occupava spazio, ma solo ricordi che prima o poi sarebbero stati ripresi e riletti ai figli. Le macchie di sugo ed altro facevano da cornice a quelle parole che esprimevano il senso della lontananza e della voglia di sopravvivere lontano da casa. Macchie e parole insieme come corollario a ciò che potesse sostituire un camino con della legna dentro.

 Le lettere tra fidanzati. In questo caso è difficile dire qualcosa di preciso. Erano fin troppo personali per poter dire come venivano scritte: ognuno, a questo punto, può concludere l’articolo come crede…

 

Mario Ciro Ciavarella Aurelio