Mario Ciro Ciavarella Aurelio

San Marco in Lamis, venerdì 5 giugno 2020 - Si aspettava sempre che entrasse qualcuno con il formaggio: poi gli odori di una credenza di tanti anni fa, c’erano tutti! Il pane appena sfornato e “piegato” dentro una carta di colore marrone, c’era; i peperoni che ti guardavano da dentro il barattolo trasparente, c’erano; la mortadella stratificata quasi sottovuoto, che sembrava composta da tante ostie giganti di colore rosa, c’era; il vino dentro delle bottiglie  impagliate somiglianti a delle damigiane in miniatura, c’era anche lui, rosso e bianco, a volte rosato.

Mancava solo il formaggio. Qualsiasi tipo: caciocavallo, provolone, scamorzone, burrata… ma poi arrivava. Bisognava solo aspettare la fermata giusta: il tempo di far salire qualche emigrante che si dirigesse al Nord, e il formaggio veniva aperto davanti a tutti nello scompartimento che ormai era diventato una piccola cucina da campeggio. Dove ognuno dei presenti, sulle gambe aveva appoggiato una pietanza.

 Il momento più bello era l’apertura della confezione casereccia che racchiudeva quello che poco dopo sarebbe stato il pranzo o la cena dei viaggiatori. L’apertura: il barattolo dei peperoni aveva un coperchio ermetico che si apriva sollevando un piccolo oggetto metallico, che appena tolto faceva: “flap”. E subito dopo lo scompartimento si riempiva dell’aroma (non dell’odore) di quei peperoni, sott’olio.

 E li si offriva. I peperoni venivano offerti come qualsiasi altra pietanza portati dai viaggiatori presenti in quello scompartimento. Guardando dentro il barattolo si vedevano due colori, giallo e rosso, quasi quasi veniva la voglia di scegliere il gusto “giusto”. Ma poi si prendeva quello che sporgeva più in alto. Lo si metteva su una fetta di pane e si mordeva. Chiudendo gli occhi. Intanto il treno continuava la sua percorrenza e il rumore degli scambi ferroviari non dava nessun fastidio, quasi ti faceva compagnia scandendo i morsi che si davano al pane con sopra peperoni, formaggio, mortadella e tutto ciò che poteva fare da companatico durante i viaggi in Terza Classe sui treni delle Ferrovie dello Stato. Come si chiamavano una volta.

 Le conversazioni tra i presenti iniziavano quasi sempre dopo aver dato un morso a quello che si era portati da casa: prima era difficile rompere il ghiaccio, dentro gli scompartimenti di un treno popolare, quello senza aria condizionata, e i sedili color “marrone cammello in vera finta pelle!!” durissimi, ma durevoli. Dopo aver condiviso il pranzo si iniziava a dire il perché di quel viaggio, spesso era per lavoro, a volte per sopravvivere. A brutte malattie.

 Molte volte guardando i visi dei viaggiatori presenti, si scopriva che alcune facce erano già conosciute: amici o parenti. Quasi quasi si veniva additati, come se fosse una colpa somigliare ad un altro. “Tu, sei identico a mio cugino!! Identico!!” Il tutto detto con il dito puntato in faccia. Oppure: “Non ci siamo già visti da un’altra parte?” in questo caso senza il dito accusatore.

 Naturalmente la fisionomia era il solo punto d’incontro, con quelle persone descritte (i sosia), dai viaggiatori che erano lì vicino a te. E da quelle scoperte fisiognomiche iniziavano i racconti dei cugini che ti rassomigliavano e di gente immaginata in altre città, ma che non eri tu, ma il tuo sosia. Bellissima sensazione. Sapere di “vivere” alte vite almeno “solo con il viso”, in zone mai conosciute, dove “un altro te” stava conducendo una vita completamente diversa dalla tua. E certamente migliore!

 Le vite degli altri sono sempre migliori delle nostre! È una legge fissa e durevole! Chissà perché! E il viaggiatore accanto ti descriveva le vite perfette dei tuoi sosia.

 Poi i discorsi viravano sempre sulla politica, dipendeva soprattutto dal periodo, se parliamo degli anni ‘70/’80, all’epoca si era obbligati a parlare degli Anni di Piombo. Almeno due decenni, che hanno infiammato l’Italia con il terrorismo rosso e nero. C’era sempre un viaggiatore (almeno uno) che invocava Mussolini: doveva esserci Lui per mettere in riga i terroristi di qualsiasi colore politico!! Ma poi un “compagno” della prima ora lo zittiva: se ci fosse stato Lui, anche l’Italia non sarebbe stata libera e democratica… e da quel momento, non se ne usciva più, da un discorso che poi debordava in congetture di fantapolitica. Come Mussolini e Hitler vincitori della seconda guerra mondiale, e il resto dell’umanità resa migliore dall’esito di quella guerra(!!??) Era un altro modo per far passare il tempo durante i viaggi nei vagoni di terza classe…

 Intanto il treno continuava a correre, e ogni tanto ci si alzava per andare a controllare sulla cartina ferroviaria, che c’era in ogni vagone, dove eravamo giunti e quanti chilometri ancora mancavano alla nostra destinazione. All’epoca non c’erano le prenotazioni del posto sul treno: salivi e ti sedevi dove volevi, mentre tanti altri restavano in piedi nei corridoi. Lungo tutto il viaggio. Il momento clou era quando doveva passare il ragazzo con il carrello per la vendita dei panini e delle bevande: ci si ammassava per alcuni interminabili secondi dentro uno scompartimento qualsiasi, e poi rilasciando il fiato si ritornava a restare in piedi nel corridoio.

 L’alternativa all’acquisto dei panini, con prezzi ribassati, era il venditore abusivo. Lo riconoscevi dalle buste piene, dalle quali uscivano di fuori tutto quello che il signore vendeva. E c’era gente che ci campava in quel modo: prendeva quel treno tutti i giorni per fare sempre la stessa tratta e vendere panini e bibite. Come nel film “Cafè Express” (1980) di Nanni Loy,  con Nino Manfredi. Dove un invalido civile cercava di sopravvivere in questo modo, drammatico.

 Quando il treno entrava dentro le gallerie, non sempre nei convogli si accendevano le luci, flebili lampadine che avrebbero dato una sottile parvenza di vita in quei vagoni. Si restava spesso completamente al buio, era la norma e nessuno si chiedeva il perché. Durante quei minuti di black out, si pensava spesso alla notte: era una specie di prova generale di come si potesse dormire in un treno spedito ad alta velocità. Si chiudevano gli occhi e si simulava il sonno notturno, cullati dal dondolio del treno, che rullava, e fischiava quando attraversava stazioni di periferia, dove nessuno treno Espresso si sarebbe mai fermato.

 Dopo la simulazione di sonno, si guardava il panorama, compresi i pali della luce che mantenevano l’elettrificazione della rete ferroviaria. I pali erano come dei frammenti di pellicole che si staccavano dal resto del film: residui fotogrammi spezzati. Davano la sensazione di piccoli muri che si frapponevano tra noi e il panorama, spezzettando tutto quello che vedevamo in lontananza: il mare diviso in fette; le case che riuscivano a non cadere da piccole alture, anche loro sembravano tagliate dai pali della ferrovia in tanti piccoli rioni.

 Si aveva la sensazione di vedere dei film incompiuti, dove mancavano le parti più importanti, che non facevano capire bene quelle trame.

 E spesso si andava nei corridoi a fumare. I fumatori avevano poche “vie di fuga” per poter accendere una sigaretta, anche se tanti anni fa c’erano già dei vagoni per solo fumatori, ma non sempre si trovava il posto desiderato. E allora si usciva nel corridoio, si apriva il finestrino (una volta di poteva fare) si appoggiavano le braccia lungo il finestrino aperto, e si fumava.

 Il fumo che usciva da quelle sigarette difficilmente entrava dentro i vagoni, ma tentava sempre di uscire fuori dal treno. Cercava altre vie. Forse migliori di quelle dei viaggiatori. Che avevano acceso un sigaretta. Per non pensarci. Chissà quante vie avrebbero potuto intraprendere. Ma solo una ha deciso tutto. Non sempre con la nostra approvazione…  

 

Soundtrack: “I treni a vapore” Ivano Fossati/Fiorella Mannoia

 Film recommended: “Train de vie” di Radu Mihăileanu      

 Book recommended: “Un indovino mi disse” di Tiziano Terzani

 

Mario Ciro Ciavarella Aurelio