Tonino Daniele

San Marco in Lamis, giovedì 23 giugno 2022. -  Janet Lewis è una scrittrice americana di culture française poco intercettata dal grande pubblico benchè Melville e Stendhal le sono affini secondo il New York Times ed Hemingway, suo compagno di scuola ad Oak Park, le chiede la sua firma per una rivista letteraria. Mai tradotta; a distanza di oltre un ventennio dalla sua morte (1998), si scommette su uno dei suoi romanzi più importanti:La moglie di Martin Guerre (Racconti Edizioni), è questo il primo di tre romanzi dei Processi Indiziari che l’autrice scrive dopo aver letto un tomo di diritto di Samuel March Phillips, Famous Cases of Circumstantial Evidence, regalatole dal marito (il rinomato poeta Yvor Winters).

I cinefili ricorderanno sicuramente due adattamenti cinematografici: Il ritorno di Martin Guerre, pellicola francese del 1982 con Gérard Depardieu e Sommersby, versione americana del 1993 con Richard Gere. La storia narrata (e realmente accaduta) ha inizio nel gennaio dell’anno 1539 in un piccolo villaggio francese (oggi abitato da poche decine di persone), all’ombra del granito della Maladeta, in una valle tra i Pirenei ed i valichi innevati per la Spagna, Artigues, ed è quella di un matrimonio tra Bertrande de Rols e Martin Guerre, entrambi undicenni ed <eredi di famiglie contadine benestanti, antiche, tradizionali e fiere come tutte le casate feudali di Guascogna>.

Quel bimbo, a pochi anni dal matrimonio, oppostosi all’intemerata legge paterna, per un banale furto di grano ai danni della famiglia (o per altri motivi sconosciuti), fugge di casa promettendo alla moglie di farvi ritorno a breve, non appena le ire del vecchio reggente si saranno placate. Il tempo – però - trascorre inesorabile nella convinzione (mai dichiarata) della morte di Martin Guerre. Finché un bel giorno, otto anni dopo e senza alcun preavviso, ecco riapparire, sull’uscio di casa, Martin (o, almeno, tale dichiaratamente presentatosi), trasfigurato dal mondo e dalle guerre combattute, più gentile, affabile, addirittura migliore. Ma lo sconosciuto che tutti chiamano Martin Guerre è davvero il marito di Bertrande de Rols? O è un impostore?

Sarà un processo a dirimere la questione. Un processo indiziario, però: si è dovuto ricorrere addirittura ad una solenne monitoria letta nelle chiese locali perché si arrivasse alla verità, o meglio ad una verità: chiunque ne fosse stato a conoscenza avrebbe dovuto rivelarla al giudice, pena la scomunica.

Centocinquanta i testimoni ammessi ed escussi. Il giudice (monocratico) di Rieux dichiara l’imputato, tale Arnaud du Tilh, colpevole di aver usurpato il nome e la persona di Martin Guerre. Lo condanna a morte, <decapitato e squartato>. In appello si pronuncia la Camera criminale del Parlamento di Tolosa. Decisivo un coup de théâtre: quando i giudici sono sul punto di pronunciare una sentenza assolutoria, avvalorando quel principio di diritto romano secondo cui <meglio era lasciar impunito un colpevole che condannare un innocente>, compare un uomo con una gamba di legno. Dice di chiamarsi Martin Guerre e i giudici gli credono. Confermano la sentenza di primo grado e mandano al patibolo l’imputato che muore implorando misericordia a Dio in nome del suo figlio, Gesù Cristo. La sentenza di condanna reca la data del 12 settembre dell’anno 1560.

Rimane un dubbio: e se l’impostore fosse proprio lo zoppo comparso improvvisamente dinanzi allo scranno di quei giudici incerti e perplessi fino alla fine? Dubbio ragionevole se anche lo stesso giudice relatore, il dotto Jean de Coras, professore di diritto all’Università di Tolosa e figlio d’arte, annotò nella sua cronaca giudiziaria del caso apparsa un anno dopo la sentenza, Arrest memorable, di come fosse persuaso dell’innocenza dell’imputato. Si dirà che più rifletteva sulle prove, più gli pareva verosimile che l’imputato fosse davvero chi diceva di essere e che la sentenza del giudice di Rieux dovesse essere cassata.

Anche Montaigne che assistette al processo e che al caso dedicò un capitolo dei suoi Essais, Des bouteux (degli zoppi), auspicava una sospensione del giudizio e l’adozione di una formula della sentenza che dicesse: < “la Corte non ci capisce niente”, più liberamente e semplicemente di quanto fecero gli areopagiti, i quali trovandosi imbarazzati da una causa che non potevano districare, ordinarono che le parti ritornassero dopo cento anni>.

Del resto, la ricerca della verità non è mai semplice, così come può essere pericoloso il ricorso agli indizi: scorciatoie che nascondono inganni onirici; si chiede che almeno siano diversi e, tra loro, gravi, precisi e concordanti, ma guai, guai a lasciarsi affascinare da frasi che trovano facile cittadinanza tra gli avventori di un “Bar dello Sport” qualsiasi: <più indizi fanno una prova>. L’indizio rimane tale, sempre e comunque e la sentenza, qualunque essa sia, di condanna o di assoluzione, che ne valorizzi i contenuti rimane sì memorabile (perché lascia tracce durevoli nel tempo) ma, sicuramente, vulnerabile, da tutti censurabile. Chi giudica non dovrebbe mai lasciarsi sedurre dal canto ammaliante delle congetture, cedere alla loro lusinghe: alimentano disquisizioni rendendo oltremodo tortuosa la strada che conduce alla verità.

L’indizio è più vicino al verosimile che al vero ed i margini del processo indiziario sono margini inafferrabili. E se è vero, come è vero, che ogni processo è un mistero, quello indiziario lo è ancor di più: procede per tentativi e per gradi successivi di approssimazione.

A margine dell’affaire Guerre, come non ricordare quella telefonata ricevuta per invitarmi a trascorrere una giornata insieme ai compagni liceali. La voce, dall’altra parte del telefono, era inconfondibilmente dolce, convincente, la riconobbi immediatamente nonostante il tempo trascorso. Accettai volentieri per poter ridere insieme di quelle parole mai trovate sul “Rocci”, del crudele riscatto di Tacito che con i suoi <Annali> si era impietosamente vendicato (senza appello) della mia (im)maturità: confusi quel “Laeti” posto all’inizio del testo da tradurre per una tribù di barbari abitanti al di là dei confini dell’Impero; era – solo (e semplicemente) un aggettivo di prima classe. Ridere dei rossori adolescenziali ai primi sguardi ammiccanti. Di Sofocle che cedeva il passo a Jacques Prevért.

Ma dopo gli amarcord arriva la curiosità: sui figli, sui nipoti, sulle carriere e quella domanda rivoltami all’improvviso, a bruciapelo: <ma tu cosa fai di bello nella vita?>; ed io per rendere la mia risposta la meno burocratica possibile: <inseguo quotidianamente la verità>; l’interlocutrice, approfittando del silenzio improvviso calato sulla mia risposta, quasi sfidandomi, m’incalzò: <e ci riesci?>. Le stampai un accenno di sorriso significandole che avevo apprezzato l’affondo e accettato la sfida: <non sempre, ma ce la metto tutta>.    

 

                                                          

                                                                       Tonino DANIELE

 

Pubblicato su l’Attacco del 22.06.2022