a cura di Nicola M. Spagnoli

Roma, lunedì 29 gennaio 2018 -  Un gruppo quasi sconosciuto ma che ha fatto un primo disco davvero particolare, un disco che è entrato a pieno diritto nella storia del rock, anche nel progressive rock per alcuni ma non solo per il contenuto anche per Il nome scelto dal gruppo: COMUS (foto 1), un nome che potrebbe essere oggigiorno molto attuale se fosse usato invece dello spagnoleggiante movida, nel linguaggio comune, per  definire le serate di  molti giovani che vogliono divertirsi, bere e fare di tutto di più.

 Nell’antichità infatti Comus era addirittura una divinità, certo un dio minore ma pur sempre un dio, figlio di Dei ben più importanti quali Bacco e Cerere, un dio legato alla baldoria, al caos (oggi si direbbe  al “casino”!) alle feste smodate e per questo molto  presente nei dipinti di molte case pompeiane e, prima ancora, in terracotte etrusche e forse in dipinti andati perduti, in cui è rappresentato come un uomo sbeffeggiante amante del bere ma che poi, in epoca romana, diventava un giovane brillo e impertinente interessato soprattutto al godereccio e…alle verginelle. Crediamo comunque, senza andare troppo indietro, che essendo inglesi i nostri del gruppo Comus, il riferimento fosse piuttosto alla loro gloriosa letteratura e principalmente allo scrittore/poeta/filosofo/politico etc. del ‘600 John  Milton, autore fra le tante cose, anche di The Masque un’opera molto conosciuta in terra di Albione in cui il protagonista è appunto Comus, un demone lubrico e selvaggio.

L’immagine di questo semidio, divenne famosa anche per le litografie a lui dedicate da William Blake ma il nostro “complesso” (come si diceva una volta) anzi il solo Roger Wootton, il loro superbo cantante e chitarrista acustico nonchè autore di molti dei  brani del disco e colui che volle fortissimamente questo nome, sembra volle ispirarsi, dicono le cronache del tempo, per questa copertina certamente a Blake ma soprattutto all’ancora più celebre Nebuchadnezzar o Nabucodonosor, l’uomo/disumano (foto 2), un ‘opera che ora si trova, famosa e ammirata da tutti, a Londra nella Tate Gallery.  Un’ispirazione deve avergliela comunque data anche un’antichissima statuetta italiota a cui molto somiglia o anche certi mostri delle guglie gotiche oltre a celebri mostri dureriani (foto 3).

 A differenza dell’esterno della copertina, all’interno troviamo tutto un altro stile, bucolico e tranquillo (foto 4), decisamente surrealista, uno specchio d’acqua su cui si affacciano o galleggiano isolotti, muri, casette e altre cose strane, dominati da un colore verde/celeste decisamente rilassante. Difatti l’interno non è opera dell’inquieto Wootton bensì di un altro membro del gruppo, l’altro chitarrista e fondatore  dei Comus, Glen Goring  coautore, manco a dirlo, di The Herald il brano più lungo e calmo di tutto il disco.

La maggior parte dei brani, al contrario, sono estremamente inquietanti, tutti  folk-rock- jazz-progressive, se si può dire, ma del tutto diversi dallo stile dell’epoca, con strumenti che includevano, oltre ai soliti, violino, violoncello, oboe nonché sassofono, ulteriori elementi che fanno di questo disco, abbastanza raro  vista la scarsa diffusione, un gioiello unico e degno di essere paragonato ai capolavori dei King Crimson, Genesis, Gentle Giant e Family. E appunto al Roger Chapman più inquietante e nevrotico sembra voglia ispirarsi Wootton quando vomita i suoi disumani ululati da lupo mannaro in canzoni che, se opportunamente valorizzate, avrebbero fatto epoca come la splendida Diana, uscita anche in singolo (foto 5).

Da sottolineare e da sentire anche oggi assolutamente, fra tutti gli ottimi pezzi, il capolavoro assoluto, quel lungo Drip drop in cui la stranissima voce, da angelo dannato, della cantante e percussionista Bobbie Watson gareggia in isteria con quella del leader in orgiastici  e spettrali voli psichedelici. Naturalmente anche i testi sono adeguati vertendo tutti su demoniache situazioni, alla pari e forse più di quelli dei Black Sabbath, dei Nazareth o degli Uriah Heep e a questi ultimi un pò si rifanno in qualche modo ma per l’immagine della copertina, quella americana, del loro primo disco. Anche i nostri Goblin useranno qualcosa di simile ma di più spiritoso per la copertina di Roller così come, più aulica a mò di sarcofago, gli Iron Maden. Quella però che più si avvicina alla nostra copertina (e a Durer!) sarà l’ ipersurrealistica Uncle Anesthesia dei Screamin Trees, opera d’arte di Mark Ryden che meriterebbe una cover art a parte.

 

Foto 1

 

Foto 2

 

Foto 3

 

Foto 4

 

Foto 5