Antonio Del Vecchio

Rignano Garganico - lunedì 12 dicembre 2016 - Cucinare le fave, per poi mangiarle in onore di Santa Lucia era ed è ancora una tradizione ben salda, a Rignano Garganico. Anzi, a quanto appreso, la stessa sarà riportata alla ribalta, sicuramente in pompa magna, il 13 dicembre, al termine della Santa Messa, prevista alle ore 18.00, nella Chiesa Matrice “Maria SS. Assunta” del luogo, da poco guidata dal giovane e dinamico parroco, Don Santino Di Biase. A renderlo noto in giro è stato lui stesso, fermamente convinto, assieme ai suoi validi collaboratori, che “rispolverare” le cose antiche è un modo come un altro per ricollegarsi alla storia e  proseguire il suo corso con maggiore impeto e sentimento nuovo. Il discorso ha avuto inizio alcune settimane fa, con l’avvio del progetto “Adotta un Santo”, diretto al recupero-restauro di antiche tele e statue raffiguranti i  santi venerati  in varie chiese del paese, specie in quelle inattive e sconsacrate da tempo per il subentro di  altri scopi e funzioni, come per esempio la Chiesa del Purgatorio.

Di essa saranno restaurati, grazie all’intervento – onere dei devoti, quasi tutti i simulacri, a cominciare da San Luigi, assai caro ai bambini di un tempo, per finire alla maestosa statua in gesso di San Bernardino, un santo di cui si era persa addirittura la memoria e alla stessa Santa Lucia, venerata nel tempio con tutte le sue tradizioni, compresa quella della “fave”. Nei tempi andati, ad organizzare la “mangiata” del gustoso elemento, ci pensava Scia’ Vincenza (all’anagrafe Maria Vincenza), una donna tutta chiesa e prossimo. Essendo vedova e sola, da tempo occupava un “sottono” in Via Montarone, dove c’era e si trovava di tutto, dalla vecchia macchina da cucire“Singer” alla farmacia personale, dove conservava la siringa, i disinfettanti, le varie erbe medicinali, ecc. Nella strada che partiva dalle “Mura” e finiva al Purgatorio, abitavano decine e decine di famiglie, tutte numerose e povere. Quando ti capitava un malanno, era lei a soccorrerti per prima, con un impacco, una tisana di fior di malva, camomilla,  alloro, ecc. Così pure, se volevi rabberciarti qualche vestito o cucire uno ex-novo da bambino. Chi scrive ne ricorda uno, quello alla zuava, di fustagno. Un pomeriggio la madre lo accompagnò. Lei prese le misure. E il giorno successivo l’abito fu pronto. Lo indossò subito, interessato com’era a piacersi e soprattutto a pavoneggiarsi tra i compagni, specie tra quelli più grandi o addirittura già giovani, che di questo tipo di vestito ne avevano fatto una vera e propria divisa. Scia’Vincenza, oltre ad assistere la mammana e le partorienti, era anche una provetta “foratrice” di orecchie. Tutte le mamme del paese portavano le loro figliolette ancora in fasce per sottoporle al martirio, che permetterà loro di infilare gli orecchini e farsi belle il domani. Da annotare al riguardo un singolare episodio. Alcune ragazzette della porta accanto, seguendone l’esempio della donna, sperimentarono l’operazione sul fratellino in culla, avvalendosi di un grosso ed appuntito ago. Non l’avessero mai fatto! Il bambino per il dolore strepitava a più non posso, tanto da attirare in un baleno tutto l’intero “stradario”, compresa l’emulata, che provvidero subito a disinfettare l’orecchio del malcapitato e a calmarlo con il “papavero” (era l’unico analgesico del tempo). Come accennato, Scia’Vincenza era la prima ad andare alla chiesa del Purgatorio e l’ultima ad uscire, assieme a donna Lucietta Martucci, nipote del canonico don Pietro Ricci, primo maestro e confessore del giovane Padre Pio (si veda “Padre Pio e Rignano” di Angelo e Antonio Del Vecchio, 1 e. 2009, 2e. 2010). Erano loro ad organizzare la festa per Santa Lucia, su mandato di don Nicolino Martelli, gestore della cappella negli anni ‘50. Lo facevano, promuovendo la novena preparatoria e provvedendo alla cottura delle fave, solitamente senza sale, e  alla loro distribuzione  il giorno della ricorrenza, a fine messa, nell’atrio. Qualche   giorno prima, come racconta Nunzia Mastrillo (classe 1920, vivente) in una intervista, contenuta nel v. Natale tra ieri ed oggi” di Angelo Capozzi e di chi scrive, Regione Puglia, 2000: <<… quando si arrivava nove giorni prima di Santa Lucia, qui c’era comare (nrd. Scia’) Vincenza, noi eravamo giovinette, che usciva e diceva: “Meh, noi dobbiamo far dire la novena! Meh, mettiamo una cosa ciascuno ché deve venire il sacerdote e dobbiamo far dire la novena di Santa Lucia!”. La novena si faceva nella chiesa, c’era il vicinato che partecipava, venivano dalla campagna e anche da più lontano. Si facevano i nove giorni. Il decimo giorno si celebrava la messa, la mattina presto. Allora si cucinavano le fave, le fave arricciate . Con quelle si riempiva un bel recipiente di creta, dove si raffreddavano facilmente, e si portavano alla chiesa. Il sacerdote le benediceva e ognuno andava a prendersi, per la devozione, quelle che voleva.  E dovevi dire, prima di assaggiarle, l’Ave Maria. C’era un cucchiaio e ognuno ne prendeva quelle che voleva”. Secondo Nunzia, le fave erano una “espressione” della vista, degli occhi. “Su Santa Lucia – continua l’intervistata – conosco un po’ di canto”. Poi ella ci canta la canzone, assai famosa a quei tempi, che riportiamo di seguito solo l’ultima strofa: “… E mamma mi vuole fa’ una serafina / per andare a visitare Gesù Bambino…>>”. Su Santa Lucia,  se ne dicono di cotte e di crude. Quasi ogni paese  ha una leggenda o una  vicenda tutta particolare da raccontare. Comunque sia, si sa che Lucia nasce a Siracusa alla fine del III secolo in una famiglia nobile e molto ricca. Da piccola rimane orfana di padre e con la madre sono costrette a professare di nascosto la religione cristiana per sfuggire alle persecuzione di Diocleziano. Avendo ottenuto da Sant’Agata (martire) il miracolo della guarigione della madre, rinuncia al matrimonio con il suo promesso sposo. Da qui l’arresto. Ma nessuno riesce a spostarla. Neppure i buoi. Quindi, le vengono strappati gli occhi e poi decapitata. Corre l’anno 304 (13 dicembre del 304).